I motivi specifici di impugnazione non devono necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello, essendo sufficiente una esposizione chiara e univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta al giudice sia delle ragioni della doglianza.
A tali conclusioni è pervenuta la Cassazione con la sentenza n. 23608 del 15 settembre scorso. Conseguentemente, se da un lato non è consentita con la proposizione dell’appello una motivazione contenente il mero rinvio alle argomentazioni già svolte e indicate negli scritti del precedente grado di giudizio, dall’altro non è, comunque, richiesta una precisa e dettagliata indicazione dei motivi di doglianza, che possono tuttavia evincersi implicitamente anche da una loro esposizione sintetica e sommaria, caratterizzata da chiarezza e univocità.
Un’analoga posizione era stata tenuta, fra le Corti di merito, dalla Ctr. Lombardia, sentenza n. 55 del 13/12/2007, per i cui giudici “l’enunciazione dei motivi d’appello può essere anche sommaria e non richiede un particolare livello di specificità sempre che sia possibile identificare il nucleo di una censura rivolta ad una pronuncia giurisdizionale già in precedenza emessa ed, a propria volta, motivata”.
Il quadro di riferimento normativo, giurisprudenziale e di prassi
Al di là delle specifiche eccezioni, il giudizio dinanzi alla Commissioni tributarie regionali assume le caratteristiche generali del mezzo di gravame a carattere sostitutivo, per cui la sentenza di secondo grado prende il posto, nel rispetto della devoluzione occasionata dall’appello presentato, di quella di primo grado (Cassazione, sentenza 17121/2007).
L’appello costituisce, quindi, il mezzo di gravame con il quale si introduce il giudizio di secondo grado, proponendo un nuovo esame della causa e un riesame di primo grado; tale nuovo esame troverà svolgimento nei limiti della domanda proposta dalla parte.
La rilevata natura di gravame dell’appello consente anche di delimitare il suo oggetto che, sostanzialmente, è lo stesso del giudizio di primo grado ove questo venga riproposto nella sua interezza.
Proprio l’operare dell’appello come revisio prioris istantiae, rende necessario riproporre le domande o le eccezioni già proposte in primo grado e non accolte, che altrimenti dovranno intendersi rinunciate, come espressamente prevede l’articolo 56 del Dlgs 546/1992.
Conseguenza di ciò è che, nella proposizione del ricorso in appello, non è sufficiente un generico richiamo ai motivi di primo grado (motivazione per relationem), bensì occorre una loro specifica indicazione (Cassazione, sentenza 734/1990).
L’articolo 53, primo comma, del Dlgs 546/1992 dispone che l’appello deve contenere, tra gli altri elementi, “i motivi specifici di impugnazione” ovverosia la causa petendi, che costituisce la parte “distruttiva” della sentenza”.
Il mero rinvio alle controdeduzioni di primo grado da parte dell’ente impositore, ad esempio, comporterebbe la declaratoria di inammissibilità dell’appello per assenza o per assoluta incertezza dei motivi specifici di impugnazione.
Tale grave sanzione di inammissibilità è rilevabile anche d’ufficio e, quindi, anche da parte del presidente di sezione della Ctr in sede di esame preliminare del ricorso in appello.
Secondo la circolare 98/1996, l’indicazione dei motivi specifici dell’impugnazione costituisce un requisito essenziale dell’atto di impugnazione, posto che la sua funzione è proprio quella di determinare il quantum appellatum, per cui occorre che le censure siano esposte con sufficiente chiarezza, atteso che non è possibile fare riserva di presentare i motivi in un momento successivo o addirittura in fase di discussione in pubblica udienza.
Massimo Longo – Fisco Oggi