Paradisi fiscali sotto scacco. Non sfuggono al fisco nostrano i redditi prodotti da una holding residente in un paese black list che risulti collegata, attraverso un complicato gioco di scatole cinesi, a una società per azioni italiana. Sono inoltre interamente tassabili in capo a quest’ultima i dividendi percepiti dall’impresa off shore, anche se questi vengono distribuiti da una partecipata white list.
A chiarirlo è la risoluzione n. 326/E del 30 luglio, con cui l’agenzia delle Entrate passa in rassegna le disposizioni tributarie in materia di imprese estere controllate o collegate.
In sostanza, si tratta di valutare se il controllo congiunto esercitato da una joint-venture paritetica composta da due soli gruppi, di cui uno residente in Italia, su un’azienda con sede legale in un paese a fiscalità privilegiata rientri nella nozione di controllo in senso stretto oppure in quella più ampia di collegamento societario. La questione è dirimente perché dalla sua soluzione dipende la modalità di tassazione dei redditi prodotti negli eden del fisco ma riconducibili ad aziende del Belpaese.
Se infatti una società black list è controllata da un’impresa italiana, allora i suoi redditi saranno tassati in base alle previsioni dell’articolo 167 del Tuir, e quindi imputati ai soggetti residenti in proporzione alle partecipazioni da questi detenute.
Al contrario, se a prevalere è l’ipotesi del collegamento, varranno le regole dettate dall’articolo 168 del Tuir, in base al quale la disciplina sulle controllate estere dell’articolo 167 è applicabile anche quando il singolo soggetto residente detiene, direttamente o indirettamente, una quota di partecipazione agli utili off shore pari almeno al 20 per cento. Una soglia che si riduce al 10% se la partecipata, oltre che risiedere in un paradiso fiscale, è anche quotata in borsa. In entrambi i casi, il reddito della collegata non sarà determinato in via analitica, come prevede invece l’articolo 167 per le controllate, ma in via forfetaria. Il reddito imputabile, infatti, corrisponderà al maggiore fra l’utile di bilancio, ante imposte, e il reddito induttivo calcolato sulla base dei coefficienti di rendimento relativi alle categorie di beni che compongono l’attivo patrimoniale.
Il caso specifico preso in esame dai tecnici delle Entrate nasce da un’istanza di interpello presentata da una Spa quotata alla Borsa di Milano. Questa partecipa indirettamente a una holding svizzera tramite una complessa catena di controllo che include un’azienda interamente controllata, che chiamiamo Gamma, una seconda società spagnola partecipata al 100%, Delta, e una terza azienda, Iota, sempre spagnola, nata da una joint-venture paritetica, che a sua volta controlla la totalità della ditta elvetica. La stessa joint-venture presenta una struttura societaria piuttosto articolata, essendo stata incorporata da una società veicolo costituita ad hoc tre anni fa da Delta e da una Spa connazionale, Lambda. Essa quindi risulta posseduta da Delta per il 49,85%, da Lambda per un altro 49,85% e dai soci di minoranza per il restante 0,3 per cento. Ne discende che l’interpellante detiene, tramite Delta, il 49,85% del capitale sociale della società elvetica, la cui attività si concretizza nella detenzione di partecipazioni e nella concessione di finanziamenti infragruppo. Non a caso tutti i suoi utili sono prodotti da due partecipazioni in altrettante aziende integralmente controllate, una residente nelle Antille Olandesi, che però non ha mai distribuito dividendi, e l’altra in Giordania, dove non gode di un regime fiscale di favore.
Una volta illustrata la situazione, l’autore dell’interpello è interessato a capire se il suo controllo sull’impresa svizzera rientri nella nozione di controllo adottata dall’articolo 167 del Tuir e se ai redditi percepiti dalla ditta elvetica e prodotti dalla società giordana sia applicabile l’articolo 89 del Tuir, secondo cui i dividendi provenienti da paesi senza un sistema fiscale privilegiato concorrono a formare il reddito societario nella misura ridotta del 5 per cento.
A fronte di questi interrogativi, l’Amministrazione finanziaria, riproponendo la definizione di controllo così come sancita dall’articolo 2359 del Codice civile, ricorda che si è in presenza di società controllate quando un socio esercita sull’altro un’influenza dominante, orientando sostanzialmente le sue scelte. Un’ipotesi che non collima con la situazione prospettata nell’interpello, dove i componenti della joint-venture hanno un ruolo assolutamente paritetico, sia sul piano decisionale che su quello della ripartizione dei posti negli organi di governo.
Ne consegue, stando al ragionamento dei tecnici dell’Agenzia, che il controllo esercitato dalla società italiana sulla holding elvetica attraverso la joint-venture non si identifica con un controllo stricto sensu, ma piuttosto con un collegamento societario così come disciplinato dall’articolo 168 del Tuir. Se si tiene fermo il presupposto che nessuno dei partecipanti alla joint-venture è nella condizione di esercitare un controllo di fatto sulla società svizzera, allora i redditi di quest’ultima saranno determinati e tassati per trasparenza in capo all’interpellante secondo le modalità induttive previste dallo stesso articolo 168.
A questa conclusione è strettamente legata la risposta al secondo quesito, relativo alle modalità di tassazione del reddito prodotto dalla società elvetica. L’applicazione dell’articolo 168 del Tuir non comporta infatti alcun rimando alle procedure ordinarie di determinazione dei redditi di impresa, per cui la società italiana, nel calcolare i redditi della holding svizzera, dovrà considerare per intero i dividendi percepiti dalla collegata e distribuiti dalla partecipata con sede in Giordania. Non valgono quindi, nel caso di specie, le disposizioni dell’articolo 89 del Tuir, non essendo possibile riconoscere un’esclusione parziale da imposizione degli utili incassati dalla collegata black list e distribuiti da una partecipata white list. Ne consegue che, per la quota non tassata in precedenza per trasparenza, questi contribuiranno per intero alla formazione del reddito della residente.
Resta comunque in piedi la possibilità per il contribuente di ricorrere a un interpello disapplicativo che metta in luce sia l’effettiva natura dei rapporti infragruppo, sia l’effettiva localizzazione del reddito.
Un ragionamento, questo, che si discosta largamente da quello elaborato dalla società autrice dell’interpello, secondo la quale varrebbero invece i principi dettati dall’articolo 167, la cui ratio risiederebbe nella possibilità per la controllante di conoscere tutti i dati necessari per l’imputazione del reddito prodotto dalla partecipata black list. Sarebbe la disponibilità o meno di queste informazioni a marcare la linea di confine tra le previsioni contenute negli articoli 167 e 168. Da qui scaturirebbe, inoltre, la possibilità di applicare le disposizioni dell’articolo 89 anche ai dividendi di imprese white list ma attribuiti a holding black list i cui redditi siano imputati a soggetti residenti, indipendentemente dal fatto che tra queste vi sia un rapporto di collegamento o di controllo. Soluzione non condivisa dall’agenzia delle Entrate.
Laura Mingioni – Fisco Oggi