La fattispecie
Con avviso di accertamento per l’anno di imposta 2000, l’Agenzia ha recuperato i costi indebitamente dedotti dalla società perché non inerenti e corrispondenti alla quota parte della complessiva sanzione irrogata dalla Commissione europea al gruppo societario, poi suddivisa tra le società tenuto conto del concorso di ciascuna nella complessiva produzione dell’illecito anticoncorrenziale.
Diversamente dall’ufficio e dal collegio di primo grado, la sezione bresciana della Commissione tributaria regionale della Lombardia ha accolto l’appello della contribuente, condannando l’Amministrazione finanziaria al rimborso delle imposte versate in sede di dichiarazione dei redditi 2000.
Ma la Cassazione, con sentenza 8135/2011, ha chiarito, ancora una volta, che il pagamento di sanzioni comunitarie antitrust non può essere considerato un costo "inerente" all’attività d’impresa poiché tali sanzioni non sono irrogate a seguito di una decisione strategica aziendale volta all’incremento dei ricavi.
Osservazioni
Nonostante l’indeducibilità dal reddito delle sanzioni antitrust costituisca un principio consolidato (Cassazione, sentenza 5050/2010 e ordinanze 600, 601 e 2594 del 2011), con la sentenza in esame, la Corte, prima, ha condotto un esame, in astratto, sulla possibilità/liceità di dedurre le sanzioni in base ai principi generali dell’ordinamento comunitario e italiano; poi, ha escluso in concreto la deducibilità delle sanzioni in quanto costi non inerenti.
Ma soprattutto, richiamando la pronuncia della Corte di giustizia dell’11 giugno 2009, nel procedimento pregiudiziale C-429/07, il Supremo collegio ha sottolineato come la deducibilità fiscale (consentita nel diritto olandese) di un’ammenda inflitta dalla Commissione o da un’autorità nazionale garante della concorrenza sia fatto idoneo a incidere negativamente sull’efficacia della sanzione, poiché in tal modo si consentirebbe la neutralizzazione, anche parziale, dell’entità della sanzione stessa.
Che le sanzioni antitrust non possano ritenersi deducibili dal reddito di impresa, infatti, emerge con riferimento sia ai poteri della Commissione nell’ambito del sistema di controllo delle intese e degli abusi anticoncorrenziali, sia alla ratio delle stesse sanzioni.
Attribuendo alla Commissione Ce il potere d’infliggere ammende alle imprese che, dolosamente o colposamente, trasgrediscono al divieto di condotte antitrust, il diritto comunitario ha fornito a tale organo il potere di svolgere il compito di sorveglianza in tale materia.
Di conseguenza, "… disgiungere il divieto generale di pratiche anticoncorrenziali dalle sanzioni previste per l’inosservanza dello stesso Trattato equivarrebbe, …, a privare di efficacia l’azione delle autorità incaricate di vigilare sul rispetto del divieto in parola e di sanzionare siffatte pratiche …".
Se, inoltre, il diritto comunitario si limitasse a riconoscere tale potere di controllo senza renderlo effettivo con l’attuazione del relativo sistema sanzionatorio, non sarebbe garantita l’applicazione uniforme del trattato Ce poiché "… l’efficacia delle sanzioni inflitte dalle autorità garanti della concorrenza, nazionali o comunitarie, è … una condizione per l’applicazione uniforme …".
Né l’indeducibilità fiscale italiana, a giudizio della Corte di cassazione, è in contrasto con il diritto comunitario: "soltanto nel caso in cui la ricostruzione del diritto nazionale, secondo le regole sostanziali e processuali ad esso proprie ivi compresa quella che impone un’interpretazione conforme al diritto comunitario, conduca all’applicazione dell’agevolazione fiscale …" non consentita invece in ambito comunitario, allora la Corte di giustizia dovrebbe essere investita in via pregiudiziale dell’interpretazione delle norme del Trattato, ai fini dell’articolo 234 (Cassazione, sentenza 7883/2007).
Ma così non è. Anche nel sistema nazionale, infatti, nessuna norma riconosce espressamente alle imprese "l’agevolazione" di dedurre la sanzione dal reddito d’impresa: ciò "significherebbe neutralizzare interamente la ratio punitiva della penalità, controbilanciandola con un corrispondente risparmio d’imposta, che, in quanto espressione della violazione di normativa imperativa, si rivelerebbe del tutto ingiustificato…" (Cassazione, ordinanza 2594/2011).
Dopo aver riconosciuto che la deduzione delle sanzioni antitrust sarebbe in contrasto con il diritto comunitario, la Corte ne ha esaminato le caratteristiche nell’ambito dell’ordinamento nazionale e, quindi, con riferimento al principio di inerenza ex articolo 75, comma 5, Tuir (ora articolo 109).
In particolare, la Corte suprema ha ribadito che tale sanzione ha natura:
- amministrativa e non penale (articolo 15, legge 287/1990, e articolo 23 regolamento Ce 16 dicembre 2002), con conseguente indeducibilità ex articolo 14, comma 4-bis, legge 537/1993, poiché tale disposizione nega la detrazione delle spese per "fatti, atti o attività" costituenti reato, mentre per gli altri casi, non disciplinati dalla suddetta norma speciale, la deducibilità dei relativi costi continua a essere assoggettata alle ordinarie regole dettate dal Tuir. Le sanzioni pecuniarie antitrust, proprio perché non sono costi di origine illecita, bensì sono frutto della reazione dell’ordinamento comunitario a un comportamento antigiuridico, non rientrano nella citata disposizione
- afflittiva e non risarcitoria, poiché la Commissione, per determinare l’ammontare dell’ammenda, tiene conto anche della gravità dell’infrazione, della sua durata e dell’intenzionalità delle varie condotte, ed effettua una graduazione di maggiore o minore responsabilità dalla quale emerge concretamente la funzione di punizione, e non di riparazione o confisca. "Non può, dunque, essere negato il carattere punitivo ad una sanzione che è inflitta a prescindere dal danno concretamente ricevuto dai consumatori. L’eventuale ristoro, infatti, non incide sulla tassabilità di proventi, pur derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo …, ricompresi nelle categorie di reddito di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 1 (Cass. sez. 5, 09 novembre 2005 n. 21746)…". E che la sanzione abbia natura afflittiva risulta anche dalla possibilità di personalizzarla con la sua commisurazione al fatturato dell’anno precedente alla commissione dell’illecito: a parità di gravità dell’illecito, infatti, uguale deve essere l’afflittività nei confronti di diversi soggetti che lo hanno commesso. Se però questi hanno dimensioni diverse, per aversi uguale afflittività dovrà necessariamente irrogarsi una sanzione quantitativamente diversa. Deve osservarsi che, se invece la sanzione avesse natura risarcitoria, essa dovrebbe essere commisurata al danno concorrenziale arrecato alla comunità e alle altre imprese del settore, a nulla rilevando la dimensione del soggetto che ha commesso l’illecito (per il danno patrimoniale, infatti, rileva la quantificazione del danno stesso, e non la forza economica del danneggiante). Personalizzazione della sanzione ma non sconti. Nella quantificazione dell’ammenda, la Commissione non è tenuta a fissare un minore importo della sanzione, né per la circostanza che nel nostro Paese la sanzione antitrust è indeducibile, né a seguito della richiesta della società di valutare proprie situazioni particolari e contingenti, atteso che "la Commissione … non è obbligata, nel fissare le ammende, a tenere conto delle differenze esistenti fra le varie legislazioni fiscali nazionali (CGE, 15 luglio 1970, causa 44/69, Buchler/Commissione, Racc. pag, 733, punto 51)…" (Cassazione, 8135/2011).
- deflativa rispetto alla condotta consumata e non produttiva del reddito, variabile nel suo ammontare "fino al" 10% dei ricavi dell’anno precedente. Il richiamo ai ricavi dell’esercizio precedente, infatti, costituisce solo un parametro utilizzato nella normativa comunitaria antitrust, ai fini della determinazione della sanzione che, quindi, non incide in maniera diretta su un incremento del reddito (ipoteticamente configurabile a cagione proprio della commessa violazione ma che, di fatto, potrebbe anche non esserci) ma ha "… funzione di deterrente di futuri possibili analoghi illeciti, e non potrà mai qualificarsi come fattore produttivo, trattandosi di condotta non soltanto autonoma ed esterna rispetto alla normale vita dell’impresa, ma antitetica rispetto al corretto svolgimento di tale attività …" (Cassazione, 8135/2011).
Quindi non inerente. In tema di reddito d’impresa, infatti, un costo può essere ritenuto deducibile solo se e in quanto risulti funzionale alla produzione del reddito. A tale riguardo, la sentenza 8135/2011 ha puntualmente sintetizzato i precedenti interventi della Corte nei quali era senz’altro da escludere la correlazione fra costi e ricavi, ai fini della deducibilità dei costi. Rientrano in tale elenco: il pagamento di sanzioni pecuniarie irrogate per punire comportamenti illeciti del contribuente, ad esempio, le infrazioni alle norme sulla circolazione stradale o gli interessi moratori su somme pagate a titolo di sanzione amministrativa; l’esborso effettuato per evitare indagini fiscali nonostante la connessa interferenza con la vita dell’impresa per preservare il risultato dei fattori produttivi, su un piano autonomo ed esterno rispetto agli atti e all’attività della gestione d’impresa; il riscatto pagato per la liberazione di un dirigente (Cassazione, 8818/1995); le sanzioni pagate dall’imprenditore a titolo di condono edilizio (a esclusione della parte delle spese non avente natura sanzionatoria, come gli oneri di urbanizzazione).
E ora nell’elenco possono includersi anche le sanzioni irrogate dagli organismi garanti della concorrenza e del mercato, comunitari e nazionali, a seguito di pratiche concordate volte a falsare in maniera consistente la concorrenza sul mercato. Tali sanzioni non sono deducibili dal reddito di impresa, trattandosi di costi che nascono "in un fatto o in un atto … antigiuridico, che per sua natura si pone al di là della sfera aziendale …" (Cassazione, 8135/2011). Non tutti i fatti che possono comportare miglioramenti per le performance aziendali, infatti, devono essere considerati inerenti. Non di certo quelli che contrastano con principi nazionali e comunitari perché vietati dai rispettivi ordinamenti, bensì quelli che appartengono alla sfera della gestione ordinaria dell’impresa e sono con questa immediatamente e direttamente collegati.
Fonte : IlFiscoOggi