L’ufficio, considerato che, ai sensi dell’articolo 86, comma 2, del Tuir, la plusvalenza deve essere calcolata come differenza tra il corrispettivo, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, e il costo dei beni non ammortizzato, convocava dunque il rappresentante legale della società per la consegna della documentazione necessaria a verificare il corretto calcolo della plusvalenza.
In occasione del contraddittorio, il contribuente presentava una memoria nella quale esponeva quanto segue:
- la società, nell’anno 2001, aveva già ceduto l’azienda, con patto di riserva della proprietà, ad altra società
- il corrispettivo per tale cessione era stato quantificato in 154.937 euro
- a partire dal luglio 2003 la società cessionaria aveva però smesso di corrispondere le rate dovute, risultando inadempiente
- nonostante l’inadempimento, la plusvalenza veniva tassata in quote costanti dal 2001 al 2005, con l’indicazione dell’importo di 28.868 euro, complessivamente per 144.340 euro
- a seguito della situazione creatasi, la società cedente richiedeva con provvedimento d’urgenza (ex articolo 700 cpc) la restituzione dell’azienda ceduta
- la restituzione veniva quindi disposta dal tribunale di Firenze con provvedimento del dicembre 2003
- conseguentemente, la società si accollava una moltitudine di debiti preesistenti a carico della cessionaria, fra cui il mancato pagamento dell’affitto e stipulava un nuovo contratto di locazione dei locali, rilasciando, inoltre, fideiussione al proprietario e pagando i canoni arretrati pari a 31mila euro, più un nuovo deposito cauzionale.
Sulla base di quanto esposto, l’ufficio riteneva quindi che la quota di 28.868 euro indicata nella dichiarazione relativa all’anno d’imposta 2004, doveva essere in realtà riferita alla prima cessione di azienda dell’anno 2001.
Con riferimento invece alla cessione effettuata nell’anno 2004, la società aveva indicato in bilancio una plusvalenza di soli 9.222 euro, su un corrispettivo pattuito di 144.608 (123.949 euro per avviamento + 20.659 per beni strumentali). La plusvalenza non dichiarata ammontava quindi a 135.386 euro.
Per quanto riguardava il registro dei beni ammortizzabili, le ultime registrazioni presenti nel libro consegnato all’ufficio risalivano, del resto, alla data della prima cessione d’azienda, dovendosi quindi ritenere che l’importo non ammortizzato fosse stato già scomputato dalla prima plusvalenza realizzata e non risultando, pertanto, importi residui da ammortizzare con riferimento ai beni oggetto della seconda cessione.
Il ricorrente eccepiva allora che le due cessioni, la prima del 2001 e la successiva del 2004, attenevano allo stesso presupposto e quindi, nel caso in cui entrambe fossero state soggette a tassazione, vi sarebbe stata una duplicazione di imposta.
L’ufficio evidenziava però, a tal proposito, che le due operazioni erano autonome, per cui non era possibile scomputare dalla seconda plusvalenza quanto dichiarato con riferimento alla prima cessione.
Si trattava, infatti, di due cessioni stipulate in periodi d’imposta diversi e con soggetti diversi.
Inoltre, in ogni caso, potevano essere effettuate anche le considerazioni che seguono.
La ricorrente, come detto, aveva evidenziato che la prima cessione d’azienda non era andata a buon fine a seguito dell’inadempimento del cessionario.
Tuttavia, la stessa società cedente, fino al 17 luglio 2003, aveva regolarmente riscosso le rate pagate dalla cessionaria come corrispettivo della stessa cessione d’azienda e non risultava che successivamente i predetti importi fossero stati restituiti al cessionario.
In secondo luogo, l’ufficio evidenziava anche come, a seguito della restituzione dell’azienda, le spese ulteriori effettuate erano state indicate in bilancio come elementi negativi e, conseguentemente, erano già state computate in ciascun esercizio a riduzione del reddito d’impresa.
In diritto, poi, la questione presentava profili di particolare interesse.
Come ricordato dalla stessa ricorrente, infatti, nel caso in esame vi era stata una vendita con riserva della proprietà, fattispecie giuridica rispetto alla quale, ai fini degli effetti fiscali e, in particolare, della realizzazione della plusvalenza da sottoporre a tassazione, bisogna considerare che l’articolo 109, comma 2, lettera a), del Tuir, stabilisce che “non si tiene conto delle clausole di riserva della proprietà“.
Tale disciplina rispecchia, infatti, l’impostazione civilistica, secondo cui tale riserva assolve esclusivamente a una funzione di garanzia in favore del venditore per il pagamento del prezzo.
Secondo lo stesso articolo 109, del resto, se diversa e successiva rispetto alla data della stipula dell’atto, acquista rilevanza la data in cui si verifica l’effetto traslativo o costitutivo della proprietà o altro diritto reale, salvo che si tratti di una delle pattuizioni espressamente dichiarate irrilevanti dalla legislazione tributaria (come, per esempio, appunto, le clausole di riserva della proprietà e le locazioni con clausola di riserva della proprietà vincolante per ambedue le parti).
A conferma della rilevanza immediata degli importi conseguiti a seguito dell’avvenuta cessione di azienda (anche nel caso di riserva di proprietà), quali appunto le rate comunque già incassate dalla ricorrente, si poteva citare inoltre anche il caso del contratto preliminare di vendita, che non comporta il trasferimento dell’azienda, impegnando solo le parti a perfezionarlo con un contratto definitivo.
Ai fini delle imposte sui redditi, l’atto è quindi privo di rilevanza, poiché per la tassazione delle plusvalenze si fa riferimento all’atto di cessione dell’azienda.
Tuttavia, anche in questo caso, se l’atto prevede la corresponsione di un acconto sul prezzo, ciò è rilevante per determinare il periodo d’imposta di riferimento per le plusvalenze derivanti dalla cessione.
In definitiva, non c’è dubbio che, riguardo alle cessioni aventi per oggetto complessi aziendali, il presupposto imponibile ai fini delle imposte sui redditi si considera integrato alla data di stipulazione dell’atto, oppure, se successiva, alla data in cui si verifica l’effetto traslativo o costitutivo della proprietà o di altro diritto reale, fermo restando che non si tiene conto delle clausole di riserva della proprietà.
Come infatti ribadito anche dalla Corte suprema, con la sentenza 18229/2003, in un caso di leasing traslativo, giustamente equiparato dalla stessa Corte alla vendita con patto di riserva, “proprio la possibilità per il concessionario di realizzare una plusvalenza nel caso di vendita per suo recesso anticipato dal contratto, comporta che i canoni effettivamente versati non coprissero solo il godimento del bene fino al momento della vendita (effetto già realizzatosi), ma anche in parte il prezzo per il suo successivo trasferimento, che, non realizzandosi, giustificava il realizzo da parte del concessionario dell’eventuale differenza in eccedenza, rispetto al valore convenzionale“.
Quindi, tornando al caso in questione, le vicende “private” di inadempimento e recesso intercorse tra i contraenti della prima cessione non avevano alcun riflesso sulla seconda, ai fini della quale rilevava soltanto, ai sensi dell’articolo 86, comma 2, del Tuir, la differenza tra il corrispettivo e il costo dei beni non ammortizzato (nel caso di specie pari a zero).
Tali conclusioni sono state infine confermate dalla sentenza della Ctp di Firenze, la quale ha espressamente affermato che “la Commissione visto l’art. 163 del Tuir, che sancisce il divieto della doppia imposizione con riferimento allo stesso presupposto di imposta, ritiene che nel caso in esame siamo in presenza di due distinti presupposti di imposta derivanti da due contratti distinti e con contraenti diversi e quindi non si verifica l’ipotesi di doppia imposizione“.