100 mila società nel mirino del fisco per perdite fasulle

La manovra spinge almeno 100mila società nel mirino del fisco. Che conta, nell’arco di un triennio, di ottenere un maggior gettito di 2,8 miliardi.
Imprese «apri e chiudi» e in «perdita sistemica». Queste le nuove frontiere della lotta all’evasione per i prossimi anni. Nel primo caso, parliamo di ben 40mila soggetti che avviano una nuova attività, per chiuderla dopo pochi mesi; nel secondo, di almeno 60mila società che per più di un anno (tre nella nostra ipotesi) hanno registrano perdite fiscali.

Sono aziende di ogni genere stando ai dati elaborati da Unioncamere per Il Sole 24 Ore: grandi e piccole, società di capitale, di persone oppure semplici ditte individuali operanti nei settori più disparati. Potenzialmente più a rischio, almeno sotto il profilo numerico, sono le società in perdita "sistemica" dell’immobiliare, delle costruzioni e del commercio. Con maggiori concentrazioni percentuali nel Sud, dove l’economia sommersa è più estesa. Tuttavia, osservano gli imprenditori, «eliminare le frodi rafforza il mercato, ma attenzione a non criminalizzare le imprese che nella stragrande maggioranza assolvono ai doveri fiscali».
La manovra correttiva pubblicata lo scorso 31 maggio sulla gazzetta ufficiale identifica, all’articolo 23, le imprese "apri e chiudi" come situazioni a specifico rischio di evasione e frode fiscale e contributiva. Ma anche all’articolo 24 è prevista una vigilanza speciale sulle imprese che presentano dichiarazioni in perdita fiscale per più di un periodo d’imposta.

I dati
L’elaborazione di Unioncamere si focalizza sulle imprese in perdita per tre anni consecutivi (la norma dice, in effetti, «più di un anno», ma l’analisi sul trienno potrebbe fare emergere più agevolmente le situzioni anomale). Il 15,9% delle società che ha presentato i bilanci nel 2005, 2006 e 2007 ha riportato una perdita civilistica. Si tratta di oltre 100mila soggetti che per tre anni consecutivi hanno chiuso i conti in rosso. Naturalmente, la perdita civilistica è altra cosa rispetto alla perdita fiscale, alla quale si riferisce l’articolo 24 della manovra, ed è difficile stabilire un rapporto diretto. Di certo, le statistiche ufficiali del fisco non lasciano dubbi sull’ampiezza del fenomeno: solo nel 2007 più di 330mila società hanno registrato perdite fiscali. Forse, quindi, non è azzardato stimare che, nel triennio 2005-7, le società in perdita fiscale siano state 60-70mila rispetto alle 100mila in perdita civilistica.

Secondo le rilevazioni di Unioncamere, svettano, per numero di imprese cronicamente in rosso, Roma e Milano. E poi Napoli, Bari e Brescia. In percentuale sulle imprese operative al primo posto c’è Matera, forse vittima della lunga crisi del salotto. Infine, emerge che la società cooperativa è la forma giuridica più diffusa nelle società in perdita "sistemica", con punte del 30 per cento.
«Criminalizzare è pericoloso – frena Michele Tronconi, imprenditore tessile e presidente di Sistema moda Italia –. Nel manifatturiero ci sono settori dove è l’Irap a mandare in rosso i bilanci. E comunque il triennio 2005/7 è il periodo successivo alla fine delle quote all’import del tessile, segnato dalla ristrutturazione. Del resto se le perdite di bilancio sono coperte da capitale o nuovi apporti perché ritenere che dietro ci sia un’operazione fraudolenta?».
Paolo Buzzetti, imprenditore e presidente dell’Ance, l’Associazione nazionale dei costruttori edili, rimarca le differenze tra dichiarazione fiscale e risultato ante imposte civilistico. Ci sono «costi civilisticamente deducibili – segnala l’imprenditore –, ma fiscalmente indeducibili che determinano variazioni in aumento rispetto alle perdite di bilancio. Due esempi: i costi fiscali dell’Iva indetraibili e l’Iva di magazzino. Costituiscono un costo secco per l’impresa: l’azienda li deve pagare punto e basta». L’area dell’immobiliare-edilizia è non di rado identificata come ad alto rischio fiscale. «Il nero si è ridotto moltissimo – sostiene Buzzetti –. Le maglie dei controlli sono diventate fittissime. Ma anche gli studi di settore si mostrano generici e approssimativi: meglio l’analisi di ogni singola azienda».
Più dubbioso Roberto Moroso, ad di Moroso, produttore di arredamento di design: «Un’impresa – sostiene l’imprenditore friulano – che chiude tre bilanci consecutivi in rosso mi lascia perplesso: serve una profonda ristrutturazione oppure è necessario darci uno sguardo. L’evasione fiscale produce aliquote più elevate per tutti e una concorrenza insostenibile».

Concorrenza sleale
Il tema della concorrenza sleale sta particolarmente a cuore ad Alberto Tacchella, azionista di Italian machine tools, produttore di macchine rettificatrici. «La subiamo tutti i giorni – osserva Tacchella – a iniziare dalle macchine senza sicurezza importate dall’Oriente. È inaccettabile che alcuni player non osservino le regole riconosciute. Quanto all’Italia non credo ci siano aziende delle macchine utensili che evadono: lavoriamo con l’automotive, l’energia e le grandi imprese».
«L’anno scorso – interviene Francesco Mangione, presidente della calabrese Spi, produttore di infissi – l’azienda ha pagato 191mila euro di tasse e, di conseguenza, l’utile ante imposte di 78mila euro si è trasformato in una perdita di 113mila: l’effetto della crisi che si prolunga. Questo però non accadeva da 15 anni. Se l’evasione fiscale fosse la metà pagheremmo tutti molto meno: dite loro di smettere».
Sul capitolo spinoso delle società fantasma, stimate dal governo in 40mila, Tronconi osserva che «in passato si sono costituite società al solo scopo di intercettare incentivi. Oggi però un’azienda che nasce e muore nell’arco di un anno non costituisce affatto un problema se non lascia "buchi"».

Buzzetti invece conclude: «Non è più tempo di aziende fantasma, ora le società se vogliono sopravvivere devono strutturarsi. Confido che i nuovi controlli fiscali siano "intelligenti" e non risultino vessatori».

Fonte: Scarci Emanuele da il Sole 24 Ore di lunedì 21 giugno 2010, pagina 3

 

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