Una recente sentenza della Commissione tributaria provinciale di Firenze, la n. 80/8/08 depositata il 29 agosto, ha evidenziato l’importanza dell’obbligo di conservazione della documentazione contabile e dell’obbligo di custodia diligente delle scritture aziendali.
Analizzando il caso sottoposto all’esame della Commissione si possono trarre alcuni principi generali, di fondamentale importanza nella corretta gestione del rapporto Fisco/contribuente, anche nell’ottica delle eventuali conseguenze negative derivanti dalla mancata ottemperanza ai precisi obblighi "procedurali" richiesti dalla legge.
L’ufficio di Firenze 2 aveva disposto un accesso presso la sede di una società al fine di reperire la relativa documentazione contabile. L’accesso aveva avuto esito negativo, dato che i locali erano risultati disabitati e in stato di abbandono, senza neppure alcuna targa o insegna della società. Non essendo stata presentata alcuna dichiarazione di variazione della sede legale, l’ufficio aveva dunque provveduto a notificare un invito al rappresentante legale della società, chiedendo l’esibizione delle scritture contabili obbligatorie e delucidazioni in ordine alla sede della società.
La parte non aveva adempiuto all’invito.
L’ufficio, effettuata una ricerca presso la banca dati della Camera di commercio, aveva reperito il nominativo del nuovo rappresentante legale della società, la cui nomina, peraltro, non era mai stata comunicata all’agenzia delle Entrate. Ne era seguito, quindi, un altro invito nei confronti del (nuovo) rappresentante, con la richiesta di esibire le scritture contabili obbligatorie.
Anche in questo caso la parte non aveva risposto.
Visto dunque che ogni documento, libro o registro, chiesto e non esibito, ai sensi dell’articolo 51, ultimo comma, del Dpr 633/1972 e dell’articolo 32, commi 3 e 4, del Dpr 600/1973, non può essere preso in considerazione a favore del contribuente, né in sede amministrativa né in sede contenziosa, e considerato che, non essendo mai state esibite, le stesse scritture contabili risultavano omesse a tutti gli effetti, l’ufficio aveva (ri)determinato induttivamente il volume d’affari, il reddito di impresa e il valore della produzione sulla base dei dati e delle notizie a sua disposizione, quali, in particolare, gli acquisti intracomunitari, come risultanti dalle comunicazioni dei cedenti comunitari tramite gli appositi modelli Intrastat.
La società non aveva infatti contabilizzato gli acquisti intracomunitari secondo quanto disposto dall’articolo 47 del decreto legge 331/1993 e aveva inoltre omesso di fatturare le cessioni intracomunitarie, secondo quanto disposto dall’articolo 46 del Dl 331/1993, nonché di annotare le relative fatture nel registro delle vendite.
L’ufficio, in particolare, anche sulla base dei dati indicati in bilancio nel modello Unico per l’anno precedente a quello di accertamento (regolarmente presentato) aveva ricostruito induttivamente:
– i ricavi delle vendite
– i costi delle materie prime, merci eccetera
– la variazione della rimanenze
– le quote di ammortamento
– le spese per servizi
– le spese per lavoro dipendente e per altre prestazioni.
Peraltro, si era limitato a utilizzare i dati contabili del contribuente, quelli naturalmente a sua disposizione, adottando un comportamento prudenziale.
A tale ricostruzione il contribuente opponeva i seguenti motivi di ricorso:
la mancata esibizione delle scritture contabili era avvenuta per cause indipendenti dalla volontà del contribuente
la ricostruzione dell’ufficio era comunque incompleta, dato che, oltre agli acquisti e ai costi presi a base dall’agenzia delle Entrate, ve ne erano stati altri, che però, per la stessa impossibilità a presentare la documentazione contabile, il contribuente non era in grado di provare.
In sostanza, era lo stesso contribuente ad ammettere che non poteva fornire una prova contraria alla ricostruzione dell’Amministrazione; ma, ritenendo che tale mancata prova fosse dovuta a fatti a lui non imputabili, chiedeva di essere esonerato dalle conseguenze accertative.
Il contribuente, in realtà, non provava però in alcun modo che tale mancata esibizione fosse stata effettivamente determinata da motivi di forza maggiore indipendenti dalla sua volontà.
Ai sensi dell”articolo 2220 del Codice civile, del resto, le scritture contabili devono essere conservate per dieci anni dalla data dell’ultima registrazione e, per lo stesso periodo, devono anche conservarsi le fatture, le lettere, i telegrammi ricevuti e le copie delle fatture, delle lettere e dei telegrammi spediti.
Tale norma va poi collegata all’articolo 22 del Dpr 600/1973, il quale afferma che le scritture devono essere conservate fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo d’imposta, anche oltre il termine decennale stabilito dall’articolo 2220 del Codice civile.
Ebbene, la Ctp di Firenze, con la sentenza prima citata, ha concordato in pieno con l’impostazione dell’ufficio, affermando che "… I ricorrenti affermano di essersi trovati nella impossibilità di produrre la documentazione contabile all’Ufficio, in quanto tale documentazione era stata conservata in un edificio … al quale sono stati apposti i sigilli … e di non essere riusciti poi ad entrarne in possesso. Rileva la C.T. che i ricorrenti avevano l’obbligo di conservare le scritture contabili fino a quando non fossero stati definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta …. E che nell’obbligo di conservare è insito l’obbligo di custodire diligentemente le scritture, ovvero di conservarle in un luogo nella esclusiva disponibilità della società o dei suoi legali rappresentanti o di depositarle presso un professionista o in altro luogo di deposito pubblico, in modo da poterne facilmente riacquistare la disponibilità. … Nella specie invece è pacifico che i ricorrenti hanno lasciato le scritture contabili … in un luogo che era del tutto al di fuori del controllo della società ricorrente e dei suoi soci, con la conseguenza che la perdita delle scritture, ove effettivamente esistenti, è la conseguenza della violazione dell’obbligo di conservazione e custodia che incombeva sulla società ricorrente e sui suoi legali rappresentanti".
In merito poi alla mancata risposta alle richieste dell’ufficio, la Commissione ricorda che "oltre a ciò va rilevato che i ricorrenti si sono attivati con deprecabile ritardo rispetto alle richieste formulate dall’Ufficio, omettendo di rispondere agli inviti rivolti dall’Ufficio ai legali rappresentanti e che di conseguenza nessuna conseguenza favorevole ai ricorrenti può derivare dalla perdita per omessa custodia delle scritture contabili".
Infine, i giudici di primo grado concludono che "risulta quindi incontestabile il potere dell’Ufficio di procedere all’accertamento induttivo sulla base dei dati in suo possesso relativi agli acquisti intracomunitari e dei dati risultanti dalla dichiarazione relativa all’anno 1998 e nessun rilievo può essere dato alla affermazione dei ricorrenti che l’accertamento non avrebbe considerato le operazioni eseguite sul mercato interno e non avrebbe considerato altri costi, che i ricorrenti stessi riconoscono che non potevano o non potranno mai documentare. Come già detto le conseguenze della colpevole perdita delle scritture contabili non possono che ricadere su chi aveva l’obbligo di conservarle".
Le conclusioni della Ctp di Firenze sono del resto in piena sintonia con la consolidata giurisprudenza della Cassazione.
Con la sentenza 8886/2007, la Suprema corte ha affermato che, in caso di omessa esibizione, da parte de
l contribuente, delle scritture contabili richieste, risulta legittimo il ricorso dell’ufficio all’accertamento induttivo.
L’articolo 32, comma 1, punto 3, del Dpr 600/1973, prevede del resto che l’Amministrazione finanziaria, per l’adempimento dei propri compiti, può "invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a esibire o trasmettere atti e documenti rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti". La mancata risposta all’invito pregiudica il diritto del contribuente a far valere, in sede contenziosa, i documenti non esibiti.
Oltre a ciò, se il contribuente non risponde, l’ufficio è legittimato a ricorrere all’accertamento induttivo, ai sensi dell’articolo 39, lettera d-bis), del Dpr 600/1973. La norma prevede, infatti, che l’Amministrazione finanziaria determina il reddito d’impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e di avvalersi di presunzioni semplici, anche se non gravi precise e concordanti, quando "il contribuente non ha dato seguito agli inviti disposti dagli uffici" ai sensi degli articoli 32, primo comma, numeri 3) e 4), del Dpr 600/1973, e 51, secondo comma, numeri 3) e 4), del Dpr 633/1972.
La Cassazione a tal proposito, con la sentenza prima citata, ha dunque affermato che è "legittimo l’accertamento effettuato sulla base dell’elenco clienti e del giro d’affari degli stessi"", posto che "l’Amministrazione finanziaria può procedere, anche in via indiziaria, all’accertamento di maggiori ricavi in materia di reddito d’impresa o di lavoro autonomo, anche in presenza di una contabilità formalmente regolare".
In sostanza, i giudici di legittimità (uniformandosi all’indirizzo già espresso nelle sentenze 2217/2006 e 19329/2006), hanno ribadito che è legittima la ricostruzione extracontabile e induttiva del reddito basata su dati e notizie comunque raccolti dall’ufficio.
Se poi il contribuente, avendo "smarrito", per sua colpa, le scritture contabili, non sarà in grado di fornire un’idonea prova contraria, non potrà certo esimersi dal subire le conseguenze negative di tale mancanza.
Giovambattista Palumbo – Fisco Oggi