L’attività consistente in cessione di beni o prestazioni di servizi nei confronti dei propri associati, effettuata verso pagamento di corrispettivi specifici, rientra nell’ambito dell’attività commerciale sebbene esercitata da associazioni o enti sportivi, culturali o ricreativi, con relativa applicazione dell’imposizione fiscale, quando le cessioni di beni e le prestazioni di servizi non siano conformi ai fini istituzionali dell’ente.
Lo ha confermato la Corte di cassazione con la sentenza n. 22739 del 9 settembre 2008.
La controversia
Un’associazione sportiva dilettantistica impugnava innanzi alla Ctp un avviso di accertamento Iva, con cui l’ufficio, considerando commerciali le cessioni di beni e le prestazioni di servizi svolte, aveva recuperato l’imposta indebitamente sottratta a tassazione.
I giudici di primo grado respingevano il ricorso; favorevole al contribuente era invece la sentenza di secondo grado.
L’Amministrazione finanziaria proponeva ricorso per Cassazione, deducendo la violazione dell’articolo 4 del Dpr 633/1972, in quanto la Ctr aveva fondato la propria decisione sull’assunto che tutte le cessione di beni e le prestazioni di servizi svolte dall’associazione, per il solo fatto di essere conformi ai fini istituzionali, non erano da assoggettarsi a Iva.
La sentenza
La Suprema corte ha accolto il ricorso dell’Amministrazione, con argomentazioni che rinvengono il loro fondamento normativo nell’articolo 4 del Dpr 633/1972. La norma regolamenta uno dei presupposti soggettivi per l’applicazione dell’imposta, disponendo l’imponibilità delle operazioni poste in essere nell’esercizio d’impresa.
Tale presupposto, in particolare, consiste nello svolgimento di attività commerciali individuate nell’articolo 2195 del Codice civile, o agricole specificate nell’articolo 2135, anche se non organizzate in forma d’impresa, nonché nell’esercizio di attività organizzate in forma d’impresa, dirette alla prestazione di servizi non rientranti nell’articolo 2195 del Codice civile.
Disposizioni particolari sono previste nel comma 4 per gli enti non commerciali – tra cui sono ascrivibili le associazioni sportive dilettantistiche – per i quali il legislatore da un lato ha previsto un particolare regime di favore (la cui ratio, per le associazioni sportive dilettantistiche, va ricercata nel tentativo di agevolare il settore sportivo dilettantistico, per l’indubbia importanza che presenta nel tessuto sociale), dall’altro ha tentato di arginare l’elusione fiscale con alcuni correttivi, per evitare l’indebito ricorso alla forma giuridica di associazioni sportive per svolgere, di fatto, attività commerciale, beneficiando iniquamente del regime fiscale agevolato a queste ultime riservato.
La norma, in particolare, prevede che "si considerano fatte nell’esercizio di attività commerciali anche le cessioni di beni e le prestazioni di servizi ai soci, associati o partecipanti verso pagamento di corrispettivi specifici, o di contributi supplementari determinati in funzione delle maggiori o diverse prestazioni alle quali danno diritto, ad esclusione di quelle effettuate in conformità alle finalità istituzionali (…), anche se rese nei confronti di associazioni che svolgono la medesima attività e che per legge, regolamento o statuto fanno parte di una unica organizzazione locale o nazionale, nonché dei rispettivi soci, associati o partecipanti e dei tesserati dalle rispettive organizzazioni nazionali".
In sostanza, la predetta disposizione, mentre esclude dal campo di applicazione dell’Iva gli atti compiuti da associazioni o enti sportivi, culturali o ricreativi, conformi ai fini istituzionali e che rappresentano l’esplicazione dell’attività statutaria, ha inteso comunque assoggettare a imposizione tutti gli atti compiuti nell’esercizio di attività commerciali, dando quindi esclusivo rilevanza alla qualità oggettiva dell’attività nell’ambito della quale il bene è ceduto o il servizio viene erogato, pur se il soggetto che lo esplica non può qualificarsi imprenditore commerciale e agricolo sulla base della normativa civilistica e della elaborazione giurisprudenziale.
Ne discende in primis che le prestazioni rese in favore di terzi e non di associati "sono sempre da considerarsi fatte nell’esercizio di attività commerciali", anche se sono conformi ai fini istituzionali, proprio perché dirette a soggetti che non godono dei diritti e degli obblighi sociali derivanti dalla qualità di associati e non sono pertanto legati all’associazione in alcun modo dal vincolo associativo.
Di contro, l’attività consistente in cessione di beni o prestazioni di servizi effettuata da un’associazione sportiva dilettantistica, nei confronti dei propri associati, effettuata verso pagamento di corrispettivi specifici, rientra nell’ambito dell’attività commerciale con relativa applicazione dell’imposizione fiscale, quando le cessioni di beni e le prestazioni di servizi non siano conformi ai fini istituzionali.
Giova a tal proposito evidenziare come i giudici di legittimità (sentenza 12148/1998) abbiano ritenuto di natura commerciale, per espressa statuizione normativa, le somministrazioni di pasti e la gestione di spacci aziendali nonché la fornitura di alimenti e bevande ai soci di un circolo ricreativo di un’associazione, o di un’associazione sportiva, quando sia svolta con il conseguimento di un utile economico, escludendo soltanto l’ipotesi in cui la fornitura avviene ai medesimi prezzi d’acquisto dei beni, senza alcun margine di guadagno, dato che solo in tale ultima ipotesi manca il suddetto carattere commerciale.
Ad analoghe conclusione la Cassazione è giunta con le sentenze 3850 e 2403 del 2000, con riferimento all’attività di bar-caffè, con mescita di bevande ai propri associati, effettuata verso pagamento di corrispettivi specifici, che non rientra in alcun modo tra le finalità istituzionali di un club sportivo-culturale ricreativo e, quindi, è attività di natura commerciale.
È da porre comunque in rilievo che per le associazioni sportive dilettantistiche e per gli enti non commerciali in generale, di cui al citato comma 4 dell’articolo, l’imponibilità sussiste unicamente nel caso in cui le prestazioni effettuate a favore dei terzi e quelle non conformi ai fini istituzionali delle associazioni, siano comunque riconducibile all’esercizio di un’attività pur se secondaria o marginale, che deve presentare i caratteri della continuità o della stabilità, non bastando il compimento di operazioni isolate di produzione o commercio (cfr Cassazione, sentenza 1259/1993).
La sentenza n. 22739/2008 ha chiarito, infine, che l’effettiva corrispondenza ai fini istituzionali dell’attività in concreto esercitata dall’associazione deve farsi discendere non dalla sola circostanza che l’associazione sportiva dilettantistica abbia avuto il riconoscimento della Fise.
Il riconoscimento, infatti, implica unicamente la conformità dello statuto associativo ai principi della Federazione, ma non autorizza a presumere sic et simpliciter la corrispondenza dell’attività in concreto esercitata ai principi stessi, essendo necessaria la verifica dell’attività effettivamente svolta.
Emanuele Cormio – Fisco Oggi