Gli accertamenti Iva compiuti presso terzi non devono essere avvalorati da controlli diretti presso il contribuente.
E’ uno dei principi enunciati, con la sentenza n. 22468 del 5 settembre 2008, dalla Cassazione.
La Suprema non ha mancato, inoltre, di evidenziare come non sia consentito in giudizio sovvertire l’onere della prova con un’affermazione di mero principio.
Il fatto
A seguito sentenza di primo grado sfavorevole al contribuente, la competente Commissione tributaria regionale accoglieva l’appello, annullando l’avviso di rettifica Iva.
L’Amministrazione finanziaria ricorreva, quindi, in Cassazione, in base a due motivi di impugnazione. Con il primo si deduceva la violazione degli articoli 54 e 63 del Dpr 633/1972, censurando la sentenza impugnata, fondata sull’assunto che “gli accertamenti compiuti presso terzi debbano essere corroborati da accertamenti diretti presso il contribuente”. Con il secondo, l’Amministrazione lamentava anche vizio di motivazione, laddove la sentenza affermava che “l’Ufficio non ha dimostrato in modo univoco che le fatture emesse dalla società appellante riguardano operazioni inesistenti”.
La decisione – Valenza dell’accertamento compiuto presso terzi
La Suprema corte, in accoglimento del ricorso, ha cassato con rinvio la decisione impugnata, enunciando due principi di diritto in aderenza a ciascuna delle rispettive censure mosse dall’Amministrazione.
Quanto al primo motivo di gravame, l’orientamento della Cassazione in materia si sostanzia nella considerazione che l’utilizzazione, da parte dell’ufficio, di elementi acquisiti nell’ambito di procedure riguardanti altri soggetti non viola disposizioni che regolano l’accertamento o il principio del contraddittorio, atteso che la normativa Iva, specificamente l’articolo 63 del Dpr 633/1972, dispone espressamente che nell’ambito dei doveri di cooperazione con gli uffici finanziari, la Guardia di finanza trasmette agli uffici stessi tutte le notizie acquisite, anche indirettamente, nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria.
La Corte ha, inoltre, riconfermato il proprio orientamento giurisprudenziale, affermando che il comma 2 dell’articolo 54, Dpr 633/1972, dispone che gli uffici, a loro volta, possono procedere alla rettifica sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, tratte da atti e documenti in loro possesso, anche quando si tratti di “verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti” (cfr sentenza n. 9100/2001).
Come conseguente corollario, i giudici hanno osservato già in altre sentenze che, in linea di principio, anche gli elementi di conoscenza raccolti secondo le regole dell’indagine penale ben possono essere impiegati ai fini dell’accertamento tributario, senza alcuna limitazione che derivi dalla mancata coincidenza tra la persona indagata e il contribuente nei cui confronti tali elementi vengano utilizzati (sentenza 14585/1999). Pertanto, il giudice che debba decidere una controversia tributaria può legittimamente fondare il proprio convincimento anche sulle prove acquisite nel giudizio penale, ancorché questo sia stato definito con una pronuncia non avente efficacia di giudicato opponibile in sede giurisdizionale diversa da quella penale, “purché proceda ad una propria ed autonoma valutazione degli elementi probatori” (sentenza 12577/2000).
Peraltro, anche l’eventuale acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento non comporta l’inutilizzabilità degli stessi, potendo gli organi di controllo servirsi di tutti gli elementi di cui siano venuti comunque in possesso, salva la verifica della loro attendibilità, in considerazione della natura e del contenuto dei documenti stessi, o di specifiche preclusioni (Cassazione, sentenza 8344/2001), non essendo l’acquisizione di dati bancari subordinata al contraddittorio col contribuente, anticipato in via amministrativa (Cassazione, sentenza 9946/2000). Né l’autorizzazione dell’AG prescritta dall’articolo 63 del Dpr 633/1972 per l’utilizzazione a fini tributari di documenti bancari, acquisiti ai fini di polizia giudiziaria, deve necessariamente riferirsi a indagini penali nei confronti del contribuente sottoposto ad accertamento, potendo tali indagini riguardare soggetti terzi (Cassazione, sentenza 24967/2005).
Il destinatario dell’onere della prova in ipotesi di operazioni fittizie
Giudicato fondato dalla Corte anche il secondo rilievo, con il quale, si è detto, l’Amministrazione lamentava l’esistenza, nella sentenza impugnata, del vizio di motivazione quanto all’affermazione secondo cui l’ufficio non avrebbe dimostrato in modo univoco che le fatture emesse dalla società appellante riguardavano operazioni inesistenti. Questo:
sia per la “genericità” dell’affermazione nel provvedimento impugnato, che non consentiva al giudice del riesame alcun controllo riguardo ai criteri di valutazione dei mezzi di prova offerti dall’Amministrazione finanziaria
sia per l’assorbente rilievo, risultante anche questo dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, per cui, in tema di accertamento dell’Iva, qualora l’Amministrazione fornisca validi elementi di prova per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni inesistenti, è onere del contribuente dimostrare il contrario (Cassazione, sentenza 21953/2007).
Con tale pronuncia, dunque, la Cassazione è tornata a occuparsi dell’onere della prova nell’ipotesi di fatture “false”, ribadendo ancora una volta che incombe sull’ufficio, che adduca in giudizio la falsità dei documenti (e, quindi, l’esistenza di un maggior debito d’imposta), provare che le operazioni commerciali descritte nelle fatture non sono mai state poste in essere, mentre spetta al contribuente che ha utilizzato tali fatture dimostrare l’effettività e realità delle stesse operazioni.
Il che vuole anche significare, ampliando il campo di indagine interpretativa con argomentazione a contrariis, che, in presenza di fatture attive o passive (apparentemente) regolari, se l’Amministrazione finanziaria non fornisce elementi di prova tali da fare fondatamente sospettare la non veridicità delle stesse, la pretesa dell’ufficio di recuperare, rispettivamente, l’Iva dovuta e/o detratta è destinata a essere annullata dal giudice tributario per carenza di riscontro probatorio. Ma laddove sia stata procurata la prova dei fatti che legittimano l’esercizio della potestà impositiva, spetta naturalmente alla parte privata l’onere di demolire l’impalcatura della fittizietà dei fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria.
E’ comunque interessante notare, nella pur breve quanto incisiva motivazione della sentenza 22468/2008, la “stigmatizzazione” della Suprema corte nei confronti del giudice dell’appello, il quale, anziché affrontare la questione sottoposta al suo esame, si è limitato a “liquidare” gli interessi oppositivi (alla conservazione della pretesa) dell’Amministrazione fiscale con un’affermazione assolutamente tautologica e di mero principio.
Salvatore Servidio – Fisco Oggi