I principi costituzionali della capacità contributiva e della progressività dell’imposizione, che informano l’ordinamento tributario, ostano al conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti attraverso strumenti giuridici, l’adozione ovvero l’utilizzo dei quali sia unicamente rivolto, in assenza di ragioni economicamente apprezzabili, al risparmio d’imposta, anche laddove non ricorra alcuna violazione o contrasto puntuale ad alcuna specifica disposizione.
L’indagine del giudice tributario può rivolgersi a differenti temi (nella specie, esistenza, validità e opponibilità dell’attività negoziale del privato nei confronti dell’Erario) rispetto all’iniziale assunto formulato dall’Amministrazione finanziaria (nella specie, disconoscimento di un componente negativo di reddito) all’esito delle deduzioni e allegazioni della difesa del contribuente.
A tali conclusioni è pervenuta la Cassazione, a sezioni unite, con la sentenza n. 30055 del 23 dicembre 2008.
La controversia
Una società impugnava innanzi alla Ctp di Arezzo un avviso d’accertamento, ai fini Irpeg e Ilor, conseguente a un processo verbale di constatazione della Guardia di finanza, sulla base del quale l’ufficio identificava alcune operazioni come di dividend washing (articoli 6, comma 2, del Tuir, e 37, terzo comma, Dpr 600/1973), disconoscendo la deducibilità delle minusvalenze conseguenti ad acquisti e rivendite di titoli, dopo la riscossione dei dividendi, effettuate dal soggetto verificato con un’altra società, gestore di fondi comuni di investimento, in quanto poste in essere per mere finalità elusive.
I giudici di primo grado accoglievano il ricorso; favorevole alla società era anche la sentenza della Ctr. Secondo la Commissione tributaria regionale, infatti, l’operazione posta in essere, solo successivamente contemplata come operazione elusiva dall’allora articolo 14, comma 6-bis, del Tuir (aggiunto dall’articolo 7-bis del Dl 372/1992), era all’epoca dei fatti del tutto lecita e riconducibile a un procedimento negoziale indiretto non simulato.
Avverso tale sentenza il ministero dell’Economia e delle Finanze proponeva ricorso in Cassazione.
Con un’ordinanza depositata il 24 maggio 2006, la quinta sezione civile della Suprema corte, rilevato che la soluzione della controversia richiedeva l’esame di questioni di massima particolarmente rilevanti, rimetteva gli atti al primo Presidente, che disponeva l’assegnazione del ricorso alle sezioni unite.
La sentenza
I giudici hanno accolto il ricorso dell’Amministrazione, riconoscendo la legittimità dell’avviso d’accertamento, con argomentazioni, riprese anche nelle sentenze 30056 e 30057, sempre del 23 dicembre scorso, che presentano spunti innovativi sull’annosa questione dell’abuso del diritto.
Giova a tal proposito evidenziare che nella giurisprudenza di legittimità, dopo un’iniziale orientamento restrittivo (cfr sentenze 3979/2000, 11351/2001 e 3345/2002), circa l’inesistenza nel nostro ordinamento tributario di una norma generale antielusiva, si è andato consolidando il principio (cfr sentenze 21221/2006 e 25374/2008), mutuato dalla giurisprudenza comunitaria, dell’inopponibilità alla Amministrazione finanziaria degli atti che costituiscano "abuso di diritto", ossia di tutte quelle operazioni poste in essere essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale.
Ad avviso della Cassazione, peraltro, sebbene i principi espressi dalla giurisprudenza comunitaria riguardino un settore impositivo di competenza comunitaria (l’Iva), anche nell’ambito dell’imposizione diretta, riservato agli Stati membri, occorre rispettare i principi e le libertà fondamentali, contenuti nel Trattato Ce.
La sentenza 8772 del 4 aprile 2008 ha ulteriormente confermato il predetto indirizzo interpretativo, che prevede l’estensione a tutta la materia tributaria della clausola antiabuso.
L’abuso del diritto, che rappresenta, pertanto, un importante mezzo di contrasto a ogni strumento giuridico utilizzato dagli operatori al precipuo scopo dell’ottenimento di un risparmio fiscale, anche laddove siano coinvolte finalità di contenuto economico, secondo la giurisprudenza "prescinde da qualsiasi riferimento alla natura fittizia o fraudolenta di un’operazione, nel senso di una prefigurazione di comportamenti diretti a trarre in errore o a rendere difficile all’ufficio di cogliere la vera natura dell’operazione. Né comporta l’accertamento della simulazione degli atti posti in essere in violazione del divieto di abuso" (Cassazione, sentenza 10257/2008).
La stessa Suprema corte ha, tuttavia, evidenziato che l’onere della prova della pratica abusiva gravi sull’Amministrazione finanziaria la quale, nell’assolvere all’obbligo di motivazione degli atti di rettifica e accertamento, non può limitarsi alla formulazione di generici rilievi, dovendo bensì indicare gli elementi a sostegno dell’assunto circa lo scopo elusivo e la carenza di effettività economica dell’operazione contestata (sentenza 25374/2008).
Le sezioni unite, con la sentenza in commento, pur aderendo a quest’ultimo indirizzo giurisprudenziale, fondato, quindi, sul riconoscimento dell’esistenza di un generale principio antielusivo, hanno affermato che la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, non risiede nella giurisprudenza comunitaria ma negli stessi principi costituzionali su cui si basa l’ordinamento tributario italiano.
Secondo la Cassazione , infatti, "i principi di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.) e di progressività dell’imposizione (art. 53, secondo comma, Cost.) costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi".
Conseguenza di tale corollario è l’affermazione dell’esistenza del principio, che rinviene la propria ragione giustificativa nelle norme costituzionali, in virtù del quale il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei a ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera finalità di ottenere un risparmio fiscale.
Le sezioni unite, hanno ricordato, peraltro, che già con la sentenza 25374/2008 era stata evidenziata l’esistenza di un principio generale non scritto, volto a contrastare le pratiche consistenti in un abuso del diritto anche in materie diverse dal diritto tributario; basti pensare alla sentenza delle sezioni unite 23726/2007, nella quale era stata definita come abusiva la pratica di frazionamento di un credito, nella fase giudiziale dell’adempimento, al fine di scelta del giudice competente.
Il principio del divieto dell’abuso di diritto, in virtù del suo fondamento costituzionale, diventa, conseguentemente, come evidenziato da autorevole dottrina, il riferimento normativo da rispettare, scalzando l’articolo 37-bis del Dpr 600/1973, che da norma antielusiva generale diviene solo una norma figlia di tale principio, con l’ulteriore conseguenza che non sarà più possibile sostenere che una determinata operazione non presenti caratteristiche di elusività perché non rientrante nell’alveo della norma.
Secondo la Cassazione, peraltro, tale principio è sempre esistito e non contrasta con esso la constatazione del sopravvenire di specifiche norme antielusive, che appaiono anzi "mero sintomo dell’esistenza di una regola generale" (Cassa
zione, sentenza 8772/2008), per cui l’inapplicabilità a una determinata fattispecie, ratione temporis, di una norma che sanziona come elusiva una determinata condotta non preclude la possibilità di rilevarne l’abusività, in considerazione della circostanza che il principio antielusivo coinvolge anche tutte quelle operazioni passate, che all’epoca dei fatti non erano sanzionate come elusive.
L’esistenza del principio antielusivo, inoltre, secondo i giudici di legittimità, non determina alcun contrasto con la riserva di legge in materia tributaria di cui all’articolo 23 della Costituzione, in quanto il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nell’imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi giuridici posti in essere con l’unica finalità di eludere l’applicazione di norme fiscali.
Con la sentenza 30055/2008, le sezioni unite hanno affrontato, infine, la questione relativa alla natura del giudizio tributario e ai poteri d’indagine del giudice tributario, limitati al riscontro della consistenza della pretesa fatta valere dall’Amministrazione finanziaria con l’atto impositivo, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso enunciati (da ultimo, Cassazione, sentenza 20516/2006).
Secondo i giudici, se l’oggetto della domanda è la pretesa impositiva e non l’accertamento dell’invalidità o dell’inefficacia di un atto negoziale, e se, invece, l’esistenza e l’efficacia del contratto sono dedotti dal contribuente al fine di paralizzare la pretesa dell’Amministrazione, sussiste, in conformità al consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità (sentenze 89/2007, 11550/2007 e 12398/2007) la sicura rilevabilità d’ufficio delle eventuali cause di invalidità o d’inopponibilità all’Amministrazione del contratto stesso, sempre che, ovviamente, ciò non sia precluso, nella fase d’impugnazione, dal giudicato interno eventualmente già formatosi sul punto o (nel giudizio di legittimità) dalla necessità di indagini di fatto.
Emanuele Cormio – Nuovo Fisco Oggi