Negli ultimi anni vi è stato un complesso contenzioso tra Amministrazione finanziaria e fondazioni bancarie in ordine al diritto delle fondazioni stesse a usufruire dell’agevolazione della riduzione a metà dell’Irpeg prevista dall’articolo 6 del Dpr 601/73 e dell’esonero dalla ritenuta del 10% sui dividendi previsto dall’articolo 10-bis della legge 1745/1962.
Le fondazioni bancarie, a parere dell’amministrazione, non avevano infatti diritto alle agevolazioni fiscali, dato che non potevano essere semplicemente considerate istituti di istruzione o di studio, né associazioni storiche, letterarie o scientifiche aventi scopi esclusivamente culturali, né enti di assistenza, considerato appunto il carattere solo eventuale e accessorio di tali attività rispetto all’attività principale consistente invece nella gestione della partecipazione nella società per azioni conferitaria, attività questa di tipo commerciale.
Sulla base delle indicazioni emerse dalla circolare ministeriale 238/1996, le direzioni regionali delle Entrate avevano, dunque, comunicato ai singoli enti interessati che le fondazioni bancarie non potevano usufruire né della riduzione a metà dell’Irpeg né dell’esonero della ritenuta sui dividendi.
L’Amministrazione finanziaria è riuscita a dimostrare la validità delle sue tesi anche in sede giudiziaria.
L’orientamento giurisprudenziale è stato però negli anni particolarmente altalenante.
Dopo i primi segnali della Corte di cassazione del 2002, poi smentiti però da successive sentenze della stessa Corte suprema (6607/2002 e 19365/2003), finalmente, le Sezioni unite, con la sentenza n. 1593 del 22 gennaio 2009, hanno approvato in pieno la posizione dell’agenzia delle Entrate.
Prima di vedere cosa ha da ultimo deciso la Corte suprema, è però opportuno ripercorrere, almeno sinteticamente, l’evoluzione giurisprudenziale che ha caratterizzato la vicenda in esame.
In un primo momento, come detto, i giudici di legittimità avevano accolto la tesi delle fondazioni bancarie, riconoscendo il beneficio della riduzione alla metà dell’aliquota Irpeg, giusta disposto del Dpr 601/1973, articolo 6, attesane la natura di enti dotati di personalità giuridica con finalità di interesse pubblico e di utilità sociale, che si limitavano ad amministrare le partecipazioni derivanti dal conferimento della propria azienda bancaria a una società per azioni e a destinare i relativi dividendi agli scopi statutari senza fini lucrativi (vedi Cassazione, 6607/2002).
A tale prima sentenza ne seguirono altre, di analogo tenore, che, a supporto della tesi favorevole alle fondazioni, hanno anche utilizzato, in chiave interpretativa, la successiva riforma di privatizzazione delle fondazioni di origine bancaria, attuata con il Dlgs 153/1999, e secondo le quali il beneficio della riduzione alla metà dell’aliquota Irpeg spettava anche alle fondazioni bancarie, in considerazione delle finalità di interesse pubblico e di utilità sociale perseguite e considerato che l’amministrazione della partecipazione nella società conferitaria dell’azienda bancaria non costituiva comunque attività commerciale, come anzi anche confermato dal fatto che la normativa di riforma precludeva alle fondazioni qualsiasi ingerenza nell’esercizio dell’attività bancaria e quindi anche la possibilità di operare come "holding", esercitando in modo indiretto tale attività.
Secondo tali prime pronunce, del resto, sulla base del Dlgs 153/1999, articolo 12, comma 2, costituente disposizione di natura interpretativa, tale regime agevolativo era applicabile anche alle fondazioni già esistenti al momento dell’entrata in vigore della disposizione e con riferimento ai pregressi anni d’imposta, purché tali soggetti, anche in conformità della decisione della Commissione Ce (del 22 agosto 2002, C-2002-3118), avessero svolto la loro attività senza scopo di lucro, secondo un giudizio di meritevolezza oggetto di accertamento in fatto (così Cassazione, 19365/2003, secondo la quale, peraltro, l’ambito applicativo dell’agevolazione in esame coincideva anche con quello di cui alla legge 1745/1962, articolo 10-bis).
Inoltre, in base a tale primo indirizzo giurisprudenziale, l’amministrazione della partecipazione nella società conferitaria dell’azienda bancaria costituiva attività strumentale, che forniva le rendite necessarie per il perseguimento degli scopi statutari e non ne formava invece l’oggetto principale (Cassazione, 19445/2003).
In definitiva, in base a tale prima impostazione, gli enti di gestione delle partecipazioni avevano natura di fondazioni a tutti gli effetti, erano dotati di personalità giuridica, perseguivano finalità di interesse pubblico e di utilità sociale, e si limitavano, in conformità al proprio Statuto, ad amministrare le partecipazioni derivanti dal conferimento della azienda bancaria.
Con la sentenza 1593 del 22 gennaio 2009, la Corte Suprema, come detto, ha però definitivamente superato tale impostazione.
Ha ritenuto infatti oggi il Collegio che "l’originario modello legislativo degli enti conferenti era orientato verso una missione che aveva ad oggetto essenzialmente e prevalentemente lo sviluppo dell’attività dell’impresa bancaria e che le attività sociali, in ipotesi fiscalmente meritevoli, avevano rilevanza marginale, non inquadrabili nei paradigmi delle norme eccezionali agevolative".
In tali casi, del resto, dice la Corte, spetta alla fondazione "la prova della "qualità" e "quantità" delle attività che avrebbero dovuto fare da traino agli sconti fiscali" (prova che, nel caso di specie, non era stata evidentemente fornita).
Il contenzioso in esame, quindi, come visto, per molti anni è risultato dall’esito incerto.
La chiave di volta, ad avviso di chi scrive (e ad avviso anche della stessa Corte suprema, che infatti ne parla ampiamente nella sentenza citata), è stata però l’ordinanza della Corte di cassazione 8319/2004, pronunciata nel giudizio di legittimità promosso dal ministero dell’Economia e delle Finanze contro la Cassa di Risparmio di Firenze Spa, con la quale la Cassazione, premesso che, ove in via interpretativa si fosse affermata l’applicazione dei benefici fiscali menzionati anche alle fondazioni bancarie, sulla base dell’affermata natura non commerciale di tali enti e del carattere d’interpretazione del citato Dlgs 153, si poteva ipotizzare un contrasto di tale sistema normativo sia con le norme e i principi del Trattato Ce in materia di concorrenza e della disciplina degli aiuti di Stato (articoli 87 e 88), effettuava allora un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Ue, ponendo il seguente quesito: "se le Fondazioni bancarie italiane, per essere titolari di partecipazioni di controllo di società bancarie, in relazione ad una quota assai rilevante che tali soggetti hanno sul mercato, e potendo destinare il ricavato della dismissione di tali partecipazioni all’acquisto in imprese non bancarie, anche per perseguire la finalità dello sviluppo economico, siano sottoposte alla disciplina comunitaria della concorrenza, da un lato, e a quella stabilita in materia di aiuti di Stato, da un altro".
Con sentenza 10 gennaio 2006, la Corte di giustizia stabiliva dunque che "nell’ambito del diritto della concorrenza il concetto di impresa comprende qualsiasi ente che eserciti un’attività economica, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento" e che "costituisce attività economica qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o
servizi su un determinato mercato".
La Corte concludeva dunque che "in linea di principio, il semplice possesso di partecipazioni, anche di controllo, non è sufficiente a configurare un’attività economica del soggetto che detiene tali partecipazioni, quando tale possesso da luogo soltanto all’esercizio dei diritti connessi alla qualità di azionista o socio, nonché, eventualmente, alla percezione dei dividendi, semplici frutti della proprietà di un bene"; ma aggiungeva anche che "un soggetto che, titolare di partecipazioni di controllo in una società, eserciti effettivamente tale controllo partecipando direttamente o indirettamente alla gestione di essa, deve essere considerato partecipe dell’attività economica svolta dall’impresa controllata", e, quindi "dev’essere considerato, a tale titolo, un’impresa ai sensi dell’art. 87, n. 1, CE … se così non fosse, la semplice suddivisione di un’impresa in due enti distinti, uno con il compito di svolgere direttamente l’attività economica precedente e il secondo con quello di controllare il primo, intervenendo nella sua gestione, consentirebbe di eludere le norme comunitarie sugli aiuti di Stato…".
Sul caso concreto, la Corte di giustizia sottolineava poi che l’ingerenza, nella gestione di una società bancaria, di un soggetto come la fondazione bancaria, parte nella causa principale, ben può realizzarsi nell’ambito di una disciplina come quella prevista dalla legge 218/1990 e dal Dlgs 356/1990, atteso che nell’ambito di tale disciplina, una fondazione bancaria che controlla il capitale di un’impresa bancaria, benché non possa svolgere direttamente l’attività bancaria, deve assicurare la "continuità operativa" tra se stessa e la banca controllata, per cui vi devono essere disposizioni che prevedano che alcuni membri del comitato di gestione od organo equivalente della fondazione bancaria siano nominati nel consiglio di amministrazione, e alcuni membri dell’organo di controllo nel collegio sindacale della società bancaria, e la fondazione bancaria deve comunque destinare una determinata quota dei proventi derivanti dalle partecipazioni nella società bancaria a una riserva finalizzata alla sottoscrizione degli aumenti di capitale di tale società, oltre a potere investire la riserva, in particolare, in titoli della società bancaria controllata.
Secondo la Corte di giustizia, quindi, "le norme in esame configuravano un ruolo delle fondazioni bancarie che va al di là della semplice collocazione di capitali da parte di un investitore; in particolare rendono possibile lo svolgimento di funzioni di controllo, ma anche di impulso e di sostegno finanziario, dimostrano l’esistenza di legami organici e funzionali tra le fondazioni bancarie e le società bancarie".
Quanto all’applicabilità della disciplina sugli aiuti di stato, la Corte di giustizia evidenziava come quando una fondazione bancaria, agendo direttamente negli ambiti di interesse pubblico e utilità sociale, effettua operazioni finanziarie, commerciali, immobiliari e mobiliari necessarie o opportune per realizzare gli scopi che le sono prefissi, essa offre comunque beni o servizi sul mercato in concorrenza con altri operatori.
In tal caso, la fondazione bancaria deve essere quindi considerata come un’impresa, in quanto svolge un’attività economica, nonostante il fatto che l’offerta di beni o servizi sia fatta senza scopo di lucro, poiché tale offerta si pone in concorrenza con quella di operatori che invece tale scopo perseguono e devono applicarsi, di conseguenza, le norme comunitarie sugli aiuti di Stato.
Insomma, la sentenza odierna delle Sezioni unite della Corte di cassazione era già scritta nella decisione della Corte di giustizia sopra citata.
A dire il vero, la Corte suprema si era comunque già espressa in tale direzione.
Con la sentenza 27619/2006, era stato infatti espressamente affermato che "il riconoscimento in favore delle fondazioni bancarie dell’esenzione dalla ritenuta d’acconto sui dividendi da partecipazioni azionarie, prevista dalla L. 29 dicembre 1962, n. 1745, art. 10 bis (introdotto dal D.L. 21 febbraio 1967, n. 22, art. 6, convertito in L. 21 aprile 1967, n. 209), è subordinato alla prova, posta a carico del soggetto che invoca l’agevolazione, dell’effettivo perseguimento in via esclusiva di scopi di beneficenza, educazione, studio e ricerca scientifica, rispetto ai quali la gestione di partecipazioni nelle imprese bancarie assuma un ruolo non prevalente e comunque strumentale alla provvista delle necessarie risorse economiche. In tale prospettiva, non può attribuirsi portata determinante alle trasformazioni disposte dalla L. 30 luglio 1990, n. 218 e dal D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, tenuto conto del perdurare nel nuovo regime di un collegamento genetico e funzionale tra fondazioni ed imprese bancarie, dovendosi invece conferire rilievo, indipendentemente dal possesso di partecipazioni azionarie di controllo (anche per il tramite di società finanziarie), all’eventuale stipulazione di patti parasociali idonei a consentire, anche congiuntamente ad altri soggetti, l’esercizio di un’influenza sulla gestione dell’impresa bancaria, nonché allo svolgimento di attività economica, anche non caratterizzata da scopo di lucro. L’accertamento di tali elementi, che consentono di qualificare l’attività della fondazione come esercizio d’impresa, conformemente alla nozione elaborata dalla giurisprudenza comunitaria, impone al giudice di disapplicare l’art. 10 bis cit., ponendosi l’agevolazione da esso prevista come misura fiscale selettiva che, in quanto potenzialmente idonea ad influire sugli scambi e ad alterare la concorrenza, viene a configurarsi come aiuto di Stato, incompatibile con il mercato comune".
Sulla stessa linea si erano poi poste le successive sentenze della sezione tributaria della Corte (vedi, per esempio, 5740/2007, 7883/2007, 10259/2007, 13559/2007, 16818/2007, 18980/2007, 18981/2007, 5963/2008, 14485/2008).
Come detto, ora le Sezioni unite mettono definitivamente la parola fine sulla questione.
Nella sentenza 1593/2009, il Collegio ha ritenuto che debba essere confermato l’ultimo indirizzo giurisprudenziale, sia perchè deriva direttamente dai principi affermati in precedenza dalle stesse Sezioni unite, "sia perché la rilettura delle norme di riforma, calate nel loro contesto storico-legislativo, confortano la tesi che il legislatore della prima riforma (c.d. riforma Amato) ha inventato un tipo di ente assolutamente nuovo nel nostro panorama legislativo, difficile da classificare, ma comunque con caratteristiche che non si conciliano con quelle degli enti elencati nel D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6 o indicati nella L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis".
Il principio che ne deriva, dice la Corte, è che "sul piano processuale questa inconciliabilità si risolve in una presunzione legale di svolgimento di attività bancaria… ".
La Corte infatti ricorda anche che le fondazioni hanno svolto, in sostanza, una attività di impresa rapportabile al modello della holding, laddove la giurisprudenza della stessa Corte suprema ha da tempo affermato che "anche la detenzione di partecipazioni, quando si traduce in un vero e proprio controllo, dà luogo ad esercizio di impresa…" (vedi Cassazione, 25275/2006).
Del resto, l’impresa bancaria, la fanno i possessori di partecipazioni rilevanti, i quali devono avere specifici requisiti soggettivi per ottenere la prescritta autorizzazione (regio decreto legge 375/1936, articoli 19 e 27), per cui vi è la presunzione legale che il soggetto che acquisti partecipazioni rilevanti in una banca svolga in concreto l’attività di banchiere.
In definitiva, conclude la Corte, "con la riforma Ama
to gli enti conferenti anziché gestire direttamente l’azienda bancaria, mediante un modello organizzativo di tipo pubblicistico, come era avvenuto per il passato, hanno continuato a svolgere tale attività utilizzando un nuovo modello organizzativo privatistico (quello della spa), mantenendo saldamente nelle proprie mani le leve di comando. La proprietà dell’azienda è rimasta nelle stesse mani. Gli enti conferenti, a fronte del conferimento dell’azienda di proprietà, hanno ottenuto azioni rappresentative (in tutto o in quota ampiamente maggioritaria) del medesimo titolo di proprietà: una semplice cartolarizzazione, che non spostava gli assetti della governarne".
Per tutte le considerazioni svolte, secondo la Corte, gli enti conferenti, a causa del particolare vincolo genetico, che le univa alle aziende scorporate, almeno fino a quando non è intervenuta la privatizzazione, non avevano alcuna "somiglianza" con gli enti fiscalmente agevolati di cui al Dpr 601/73 e, quindi, la relativa normativa non può essere loro applicata né in via analogica (trattandosi di disposizioni eccezionali), ma neanche in via estensiva, posto che la ratio delle norme agevolative è da ricercarsi nella esclusività e tipicità del fine sociale in senso ampio, previsto per ciascun ente individuato in maniera tassativa. Né sono ammesse equiparazioni se non espressamente dichiarate dal legislatore.
Neppure, infine, ribadisce la Corte, è possibile sostenere che la successiva riforma del sistema creditizio, nell’estendere il regime fiscale di favore di cui all’articolo 6 del Dpr 601/1973 agli enti che si siano adeguati alle nuove prescrizioni della seconda riforma (Dlgs 153/1999, articolo 12), abbia valenza interpretativa e quindi efficacia retroattiva.
Il Dlgs 153/1999 ha infatti chiarito che le fondazioni "possono esercitare imprese solo se direttamente strumentali ai fini statutari ed esclusivamente nei settori rilevanti" (articolo 3, comma 1), confermando, implicitamente, che, in precedenza, il sistema non poneva un vincolo del genere e potevano essere svolte tutte le attività considerate genericamente opportune.
L’articolo 12 del Dlgs 153 detta quindi la disciplina fiscale solo per i "nuovi" enti privatizzati (e sempre che tali enti si siano adeguati alle prescrizioni dettate dalla riforma di privatizzazione e, quindi, in primo luogo alla dismissione delle partecipazioni di controllo).
La sentenza della Corte suprema ha dunque recepito in pieno le tesi già da tempo sostenute dall’Amministrazione finanziaria e ha riconosciuto la natura commerciale (o quanto meno non esclusivamente non commerciale) delle fondazioni bancarie e, quindi, la non spettanza né dell’esonero della ritenuta del 10% sui dividendi (articolo 10-bis della legge 1745/1962), né dell’esenzione dal 50% dell’Irpeg (articolo 6 del Dpr 601/73).
L’Amministrazione finanziaria (vedi anche G. Palumbo "Giurisprudenza in materia di fondazioni bancarie" in "FiscoOggi" del 2 novembre 2006) ha infatti sempre sostenuto la natura innovativa (e non interpretativa) dell’articolo 12 del Dlgs 153/1999, che prevedeva espressamente la spettanza delle esenzioni a favore delle fondazioni bancarie.
Natura innovativa confermata appunto anche dal procedimento di infrazione aperto dalla Commissione europea proprio in riferimento all’articolo 12 citato e rientrato solo a seguito della Finanziaria 2001, che aveva vietato il controllo di aziende bancarie da parte delle fondazioni. Il fatto che la Commissione Ce non avesse mai rilevato, dall’entrata in vigore dell’articolo 6 del Dpr 601 in poi, una incompatibilità con il mercato comune confermava infatti, senza dubbio, la non automatica applicabilità di quel regime alle fondazioni bancarie.
Tali principi erano stati inoltre già riconosciuti anche in sede di merito (vedi, tra le altre, Ctr Toscana 72/2005, 63/2005).
Gli enti conferenti, infatti, secondo le Commissioni di merito, conservavano il pieno controllo delle società bancarie rendendo proprie in questo modo le loro finalità: "in sostanza le società creditizie erano strumenti nelle mani di questi ultimi, dovendosi perciò escludere che gli enti conferenti potessero qualificarsi come semplici rentiers" (Ctr Toscana 63/2005).
Solo con la disciplina disposta dal Dlgs 153/99 la situazione è quindi stata sostanzialmente modificata, come dimostrato per esempio dall’articolo 5 dello stesso decreto, il quale ha stabilito che il patrimonio delle fondazioni fosse totalmente vincolato al perseguimento degli scopi statutari (mentre in precedenza, come visto, gli enti conferenti potevano anche costituire riserve finalizzate alla sottoscrizione di aumenti di capitale delle società conferitarie).
Anche in merito poi alla effettiva natura dell’ente, l’ultima decisione della Corte, a ben vedere, era già stata anticipata da vari precedenti giurisprudenziali, anche lontani nel tempo.
Per quanto riguarda, infatti, la natura dell’attività esercitata dalle fondazioni bancarie, era già molto indicativo quanto affermato nella sentenza della Cassazione 2573/1990, laddove la Corte già riteneva che la natura dell’attività in concreto esercitata (elemento oggettivo) prevalesse comunque sul fine dichiarato (elemento soggettivo), anche se, come in questo caso, si tratta di fine non di lucro, dato che lo scopo di ripartire o no utili ai partecipanti all’iniziativa commerciale costituisce un "momento successivo alla produzione degli utili stessi", che non fa venire meno il carattere commerciale dell’attività e non rileva ai fini tributari, essendo indifferente la destinazione che venga data agli utili eventualmente prodotti (vedi anche Cassazione, 13249/1992 e 964/1992).
Né, come visto, si poteva del resto sostenere che l’attività di amministrazione di partecipazioni azionarie non costituiva attività commerciale, bensì mera gestione patrimoniale del portafoglio azionario, dato che tale conclusione non è corretta quando il godimento del pacchetto azionario si evolve o in un’attività economica organizzata in campo finanziario e ausiliario, finalizzata al sostegno dell’impresa svolta dalla società controllata (holding operativa) o anche soltanto nell’attività di direzione e di governo della medesima impresa (holding pura).
Già la, ormai lontana, sentenza della Ctp di Firenze 216/97 aveva infatti riconosciuto che le fondazioni esercitano, di fatto, la direzione dell’impresa bancaria della società conferitaria, dato che l’amministrazione di un pacchetto azionario significa controllo delle assemblee societarie e dunque assunzione, in sede assembleare, delle decisioni operative, che pur non interferendo con l’autonomia gestionale della banca e con la sua neutralità allocativa, il codice civile rimette all’azionista.
Nessuno può del resto negare che le fondazioni bancarie, per mezzo del controllo dell’assemblea societaria, controllino le società conferitarie, o comunque esercitino "attività di indirizzo, coordinamento o di ingerenza nella gestione della società partecipata" (requisiti, in presenza dei quali, per l’appunto, anche l’articolo 4 del Dpr 633/72 dispone che debba riconoscersi la natura commerciale dell’attività di possesso di partecipazioni).
Una tale tesi era inoltre confermata anche da autorevole dottrina: la holding esercita in forma indiretta le stesse attività che sono esercitate in via diretta dalle società partecipate (vedi anche Cassazione, 1439/90). Il requisito della commercialità del resto sussiste in questi casi anche sulla base di quanto disposto dall’articolo 2082 c.c., secondo il quale l’attività commerciale può essere esercitata sia in via imme
diata che mediata.
L’impegno profuso dall’Amministrazione finanziaria in questi anni su un contenzioso di tale rilevanza e complessità è stato notevole.
Alla fine, la Corte ha accolto in pieno tutte le tesi fino a oggi sostenute.
Nuovo Fisco Oggi