È legittima la presunzione di attribuzione pro quota, anche se la compagine ha fatto il condono tombale
Nella sentenza 10270 del 10 maggio, la Corte di cassazione ha stabilito che il socio della Srl a carattere familiare paga l’Irpef sugli utili extrabilancio dell’azienda, anche se questa ha aderito al condono tombale e l’ufficio non ha fatto nessuna verifica sui conti bancari del contribuente. Ciò in quanto la società e il socio sono titolari di posizioni fiscali distinte e indipendenti.
Il fatto
Motivi della decisione
Effetti del condono “tombale”
Il fatto
La vicenda di fatto concerne avvisi di accertamento Irpef dei redditi di partecipazione notificati ai due soci di una piccola società a responsabilità limitata, imputando loro gli utili extrabilancio – ossia ricavi non contabilizzati per quello stesso periodo d’imposta – contestati all’azienda a ristretta base partecipativa, nonostante quest’ultima avesse aderito al condono “tombale” (articolo 9, legge 289/2002). Ciò in considerazione che, in simili vicende, opera la presunzione semplice di attribuzione pro quota ai soci degli utili sociali non contabilizzati.
Dopo un primo grado sfavorevole ai contribuenti, la Commissione tributaria regionale ha confermato la validità degli atti impositivi, atteso, da un lato, che per le società a ristretta base partecipativa a carattere familiare opera la presunzione semplice di attribuzione pro quota ai soci degli utili non canalizzati attraverso le scritture contabili ufficiali e, dall’altro, che l’istanza di sanatoria presentata dalla società non produce effetti anche nei confronti dei soci che non si sono avvalsi di quella possibilità concessa dalla legge.
Secondo i ricorrenti – che procedono nell’ulteriore grado del giudizio – l’Ufficio, in violazione dell’articolo 39 del Dpr n. 600/1973 e dell’articolo 42 (nel testo vigente ratione temporis, ora articolo 45) del Dpr 917/1986, ha basato il suo accertamento su una doppia presunzione, il conseguimento di redditi di impresa da parte della Srl e la distribuzione degli utili ai soci, costruita su un’equazione: ristrettezza della base sociale uguale distribuzione di utili in nero, gravemente lesiva per il diritto di difesa, mentre avrebbero dovuto concorrere altri elementi, come un accertamento bancario.
Motivi della decisione
Evidentemente i motivi del gravame non convincono, in quanto con la sentenza 10270/2011 in esame, la Corte di cassazione ha respinto il ricorso dei contribuenti.
Così, il primo profilo di doglianza è stato ritenuto infondato alla luce della consolidata giurisprudenza della Suprema corte (sentenze 6780/2003, 10951/2002, 7234/2000, 2606/2000 e 2390/2000), che legittima ai fini fiscali la presunzione di attribuzione pro quota ai soci, nel corso dello stesso esercizio annuale (Cassazione 7564/2003), degli utili non iscritti in bilancio di società di capitali a ristretta base azionaria. Tale presunzione trova presupposto nell’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973, inducendo all’inversione dell’onere della prova (articolo 2697 cc) a carico del contribuente (sentenze 9755/2003, 17016/2002, 6517/1992, 4133/1987), onere che nella specie non risulta essere stato assolto (cfr Cassazione 1924/2008).
Inoltre, occorre rilevare che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo a quelli di capitale, pur non sussistendo una presunzione legale di distribuzione degli utili ai soci, a differenza delle società di persone (articolo 5 Dpr 917/1986), nel caso di società a ristretta base sociale è legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili (per gli utili non occulti, articolo 2433 codice civile), la quale non viola il divieto di presunzioni di secondo grado (praesumptio de praesumpto), cioè non dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza ex articolo 2729 cc, poiché la base logica non è costituita dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale (sentenze 6780/2003, 7174/2002 e 4695/2002). Affinché, però, detta presunzione possa operare, occorre sia che la ristretta base sociale e/o familiare – cioè il fatto noto alla base della presunzione – abbia formato oggetto di specifico accertamento probatorio, sia che sussista un valido accertamento a carico della società in ordine ai ricavi non contabilizzati, il quale costituisce il presupposto per l’accertamento a carico dei soci in ordine ai dividendi (Cassazione 18640/2009, 13338/2009 e 9519/2009). Tale principio discende dal fatto che, essendo “la ristretta base azionaria” regola empirica e non legale, in quanto tale va accertata in concreto, con riferimento a tutti gli elementi dai quali è possibile desumerne la sussistenza secondo l’articolato e contrapposto fraseggio processuale intessuto dalle parti (Cassazione 20870/2010).
Tali considerazioni possono però essere superate allorché il contribuente non abbia specificamente contestato in giudizio tale circostanza (Cassazione 17358/009 e 20870/2010), come è avvenuto nel caso di specie.
La suddetta presunzione, pertanto, non scalfita dalle circostanze sopra esaminate, è sufficiente a suffragare la pretesa del fisco, per cui è corretto ritenere che l’ufficio ha provato la sussistenza, l’ammontare e la definitività del reddito societario e per imputazione (cfr Cassazione 20851/2005).
Effetti del condono “tombale”
Ma non è ancora tutto. Sul fronte condono tombale, la Cassazione ha, poi, ribadito che l’adesione alla sanatoria non ferma l’accertamento. Anche in questo caso, costituisce principio consolidato il fatto che la presunzione, fondata sul disposto dell’articolo 39, primo comma, lettera d), del Dpr 600/1973, non viene meno in ipotesi di presentazione di domanda integrativa di condono da parte della società, essendo questa e il socio titolari di posizioni fiscali distinte e indipendenti (Cassazione 7218/2001, 16885/2003, 20851/2005 e 1924/2008).
Al riguardo, occorre rammentare che, in applicazione del principio di trasparenza, anche nei confronti di soggetti diversi da quelli di cui all’articolo 5 del Tuir, i soggetti (persone fisiche) titolari di redditi prodotti in forma associata, per la presentazione della dichiarazione integrativa, dovevano attenersi alle particolari forme e modalità prescritte dal comma 4 dell’articolo 9 della legge 289/2002, ossia dovevano indicare nella dichiarazione integrativa relativa a ciascun periodo di imposta l’ammontare minimo determinato, nella stessa misura prevista dal comma 3 per i titolari dei redditi di impresa, in ragione della propria quota di partecipazione.
Nel caso trattato, invece, i soci ricorrenti hanno lasciato “scoperta” la propria posizione, così da rendere legittima l’azione del fisco.
Infine, per quanto riguarda gli effetti della dichiarazione di condono nella compagine societaria, la Corte suprema ha disatteso anche il rilievo secondo cui il socio che paga l’Irpef sugli utili extracontabili condonati dall’azienda viene sottoposto a una doppia imposizione. Ciò perché nella fattispecie trattata non è stato violato il principio secondo cui l’operatività del divieto di doppia imposizione, (articolo 67 del Dpr 600/1973), “postula la reiterata applicazione della medesima imposta in dipendenza dello stesso presupposto”, atteso che tale condizione non si verifica nell’ipotesi di una duplicità meramente economica di prelievo sullo stesso reddito, come quella che si realizza con la tassazione del reddito sia delle persone giuridiche sia delle persone fisiche derivante dalla partecipazione al capitale di una società commerciale, che si caratterizzano tra loro per una diversità non solo dei soggetti passivi, ma anche dei requisiti posti alla base delle due diverse imposizioni (cfr Cassazione 8351/2002).
Fonte : IlFiscoOggi