Legittima per entrambi la confisca dei beni, poiché non è dimostrato che solo la ditta ha beneficiato dell’illecito
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 662 del 13 gennaio, ha stabilito che per l’indebita compensazione dell’Iva dell’azienda sono penalmente responsabili tutti i soci “consapevoli” e non solo l’amministratore e, di conseguenza, a tutti i concorrenti del reato tributario possono essere sequestrati beni personali.
La vicenda
Il caso trattato concerne un procedimento penale a carico di due soci e di un amministratore di altrettante società di capitali, strettamente collegate tra loro, per i reati di indebita compensazione di imposte e di occultamento o distruzione di documenti contabili previsti rispettivamente dagli articoli10-quater e 10 del Dlgs 74/2000. In particolare, l’accusa consisteva nell’avere originato, attraverso operazioni inesistenti, un credito Iva di notevole ammontare, successivamente utilizzato in compensazione, per non versare l’imposta dovuta e nell’aver successivamente occultato la documentazione contabile, per non lasciare tracce dell’operato.
Il giudice per le indagini preliminari, ricorrendo un insieme di elementi di pericolosità fiscale (esistenza del fumus di reato, fondatezza dei presupposti del sequestro, legittimità del sequestro di beni riconducibili alla persona degli indagati, eccetera) per applicare l’istituto della confisca per equivalente (articolo 1, comma 143, legge 244/2007, nel rinvio operato all’articolo 322-ter del codice penale), ha adottato nei confronti degli indagati un decreto di sequestro preventivo avente a oggetto beni immobili e partecipazioni societarie dei contribuenti.
Contro il provvedimento del Gip venivano proposte istanze di riesame, che però trovavano reiezione da parte del competente tribunale, la cui ordinanza è stata quindi gravata di ricorso per cassazione.
Nei relativi motivi oppositivi, premesso che veniva comunque contestata la fittizietà del credito Iva posto in compensazione per mancanza di prove circa la partecipazione del socio alla divisione degli utili o del prezzo del reato, le parti insistevano nel tentativo di escludere a carico di un socio l’attribuzione del reato di indebita compensazione, del quale potrebbe rispondere esclusivamente il solo rappresentante legale della società e non anche il socio, risultando del tutto inverosimile che quest’ultimo possa essere imputato di concorso nel reato per l’occultamento delle scritture contabili.
Asserivano poi che l’occultamento o distruzione di scritture contabili, reato non di danno ma di pericolo, non sarebbe annoverabile tra quelli che consentono la confisca per equivalente né – per l’effetto – che il mezzo possa colpire anche beni che non siano in rapporto diretto con i reati per i quali si procede.
Motivi della decisione
Nel respingere il ricorso, la Suprema corte stabilisce al riguardo i seguenti principi:
- i soci sono corresponsabili con l’amministratore del reato di indebita compensazione Iva
- i beni personali dei soci e degli amministratori possono essere sequestrati.
In particolare, la Corte rettifica preliminarmente alcuni postulati interpretativi dei ricorrenti, chiarendo, in primo luogo, che è vero che il sequestro preventivo può essere disposto unicamente per il reato di cui all’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000, non potendo discendere dall’articolo 10 conseguenze pregiudizievoli per l’erario (la misura costituisce, infatti, una forma di riscossione pubblica a compensazione di prelievi illeciti e assume carattere preminentemente sanzionatorio) che giustifichino una pretesa tutelabile con siffatta misura cautelare, ma è anche vero che – nella fattispecie – il sequestro disposto nei confronti del socio trova fondamento nell’ulteriore contestazione dell’articolo 10-quater.
Inoltre, la Corte rettifica anche l’affermazione secondo cui, per i reati tributari in questione, non sarebbe configurabile il concorso di persone ex articolo 110 cp, considerando che, se il linea di principio il reato previsto dall’articolo 10-quater viene commesso in via principale dagli amministratori nella qualità di responsabili degli oneri tributari della società, ciò non esclude però che alla commissione di questo reato possano concorrere altri soggetti qualificati, “la cui co-responsabilita può trovare fondamento in condotte consapevoli che rispondano ai requisiti fissati in via generale dall’art.110 c.p.”.
In proposito, la giurisprudenza consolidata afferma che, in tema di responsabilità da reato degli enti, nel caso di illecito plurisoggettivo, deve applicarsi il principio solidaristico che implica l’imputazione dell’intera azione e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e pertanto, una volta perduta l’individualità storica del profitto illecito, la sua confisca e il sequestro preventivo a essa finalizzato possono interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, ma l’espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel quantum l’ammontare complessivo dello stesso (Cassazione 25890/2010, 10810/2010, 26654/2008 e 25877/2006).
Ciò posto, sul fronte della sequestrabilità (misura finalizzata alla confisca) dei beni personali di soci e rappresentanti legali di società, la sentenza in esame conferma la linea dura della Cassazione, dichiarando che “il ricorso erra” allorché prospetta l’impossibilità per l’autorità giudiziaria di sottoporre a vincolo i beni personali delle persone indagate, in quanto non è stato dimostrato che i vantaggi fiscali dell’operazione illecita fossero circoscritti a un beneficio esclusivo per la società. D’altronde, la misura cautelare de qua può essere disposta sia sul patrimonio del soggetto che commette la violazione quanto su quello del soggetto che ne ha tratto vantaggio, non rilevando al riguardo la circostanza che la dichiarazione annuale non sia stata ancora presentata in quanto non ostativa del conseguimento del profitto (Cassazione 6288/2010 e 26611/2009).
Infatti, le somme dovute al Fisco e non versate possono essere state indirizzate verso disponibilità non ufficiali e la reale destinazione delle stesse è stata uno degli oggetti di indagine. Da ciò deriva che non vi erano ragioni per ritenere illogica o incoerente l’affermazione di sussistenza del fumus di reato a carico dei singoli indagati anche sotto tale profilo.
Peraltro, la Suprema corte ha stabilito inequivocabilmente sul punto (sentenza 42462/2010) che l’estensione dell’applicazione della confisca per equivalente a reati come quelli tributari, nei quali non sussiste il prezzo del reato, deve essere necessariamente intesa quale rinvio alle disposizioni dell’articolo 322-ter cp, comma 2, con la conseguente confiscabilità per equivalente del vantaggio economico che l’autore ha tratto dal reato tributario. Il credito Iva utilizzato nel corso dei periodi d’imposta successivi a quello di insorgenza per soddisfare posizioni debitorie nei confronti dell’erario comporta una compensazione (articolo 17 del Dlgs 241/1997), configurando la fattispecie di cui all’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000.
Per tutte le suesposte ragioni, la condivisibile tesi restrittiva adottata dalla terza Sezione penale ha comportato la conseguente la conferma della condanna del socio della Srl.
Fonte : IlFiscoOggi