Accade spesso di assistere a contenziosi in cui il contribuente non contesta l’infondatezza della pretesa dell’ufficio, ma impugna l’avviso di accertamento sostenendo di essere stato vittima del proprio commercialista, il quale, senza plausibile giustificazione, non ha trasmesso in via telematica al competente ufficio la dichiarazione dei redditi.
Il contribuente sostiene sempre, in questi casi, di essere all’oscuro del mancato invio e in perfetta buona fede.
L’assenza di colpa dovrebbe allora condurre all’illegittimità dell’accertamento.
A prescindere o meno dalla connivenza del contribuente con il proprio professionista (connivenza spesso, a dire il vero, smentita anche a seguito di procedimento penale a carico dello stesso professionista) il contribuente però non potrà esimersi dal pagare quanto dovuto.
L’intermediario risponderà comunque per le proprie violazioni e sarà sottoposto alle specifiche sanzioni previste; ma queste saranno comunque diverse rispetto a quelle a carico del contribuente, solo soggetto di imposta e solo “referente” di fronte all’Erario.
L’omessa trasmissione della dichiarazione da parte degli intermediari abilitati costituisce una violazione autonoma che soggiace alla sanzione amministrativa da 516 a 5.164 euro per ogni dichiarazione non trasmessa (articolo 7-bis del Dlgs 241/1997).
Per tali violazioni, laddove commesse ripetutamente, sono previste, inoltre, delle pene accessorie. L’articolo 8, lettera f), del Dm 31 luglio 1998 (regolamento recante indicazioni sulle modalità tecniche per la trasmissione telematica delle dichiarazioni) dispone in tal caso anche la revoca dell’abilitazione.
Al tempo stesso però, in presenza di dichiarazione omessa, quale sarà sicuramente quella in esame, oltre a comminare a carico del professionista le suddette sanzioni, l’ufficio è legittimato a determinare induttivamente l’imposta dovuta dal contribuente sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza.
E a nulla varrà, per il contribuente, eccepire la propria buona fede.
Va ricordato, infatti, che, proprio in caso di invio telematico delle dichiarazioni, l’articolo 3, comma 6, del Dpr 435/2001, stabilisce che le banche e gli uffici postali rilasciano, anche se non richiesta, ricevuta di presentazione della dichiarazione.
Gli intermediari, contestualmente alla ricezione della stessa o dell’assunzione dell’incarico per la sua predisposizione, devono poi rilasciare al contribuente o al sostituto di imposta l’impegno a trasmettere in via telematica all’agenzia delle Entrate i dati contenuti nella dichiarazione, nonché, entro trenta giorni dal termine previsto per la presentazione in via telematica, la stessa dichiarazione trasmessa e la copia della comunicazione dell’agenzia delle entrate di ricezione della dichiarazione.
Al comma 9, l’articolo 3 sopra citato stabilisce che i contribuenti e i sostituti di imposta che presentano la dichiarazione in via telematica, direttamente o tramite i soggetti di cui ai commi 2-bis e 3, devono conservare, per il periodo previsto dall’articolo 43 del Dpr 600/1973, la dichiarazione debitamente sottoscritta, nonché i documenti rilasciati dal soggetto incaricato di predisporre la dichiarazione.
Infine, al comma 10, viene previsto che la prova della presentazione della dichiarazione è data dalla comunicazione dell’agenzia delle Entrate attestante l’avvenuto ricevimento della dichiarazione presentata in via telematica.
Insomma, il legislatore si è premurato di evitare che i contribuenti si potessero nascondere dietro la scusa che erano all’oscuro del mancato invio e ha, a tal fine, predisposto specifici obblighi a carico del medesimo contribuente, tra cui appunto quello di conservare copia della comunicazione dell’Agenzia di ricezione della dichiarazione, sola prova dell’avvenuta presentazione.
Se, perciò, fino all’entrata in vigore del Dpr 435/2001, il contribuente, sotto il profilo della responsabilità per sanzioni, doveva solo preoccuparsi di consegnare la propria dichiarazione all’intermediario, in tempo utile perché la stessa potesse essere presentata entro i termini previsti, essendo poi esonerato da responsabilità, a seguito delle descritte disposizioni normative egli non ha invece più scuse, essendo la stessa legge a stabilire gli oneri probatori di cui si deve fare carico per essere esente da sanzioni o responsabilità (quanto meno per culpa in vigilando).
E, come noto, ignorantia legis non excusat.
Resta, dunque, in questi casi confermata in pieno la legittimità dell’accertamento, sia sotto il profilo dell’imposta dovuta che sotto quello della sanzione applicabile.
Il contribuente, eventualmente, potrà poi comunque esperire azione di responsabilità civile verso il professionista inadempiente.
Giovambattista Palumbo – Fisco Oggi