Nel caso il contribuente abbia impugnato il silenzio-rifiuto sull’istanza di rimborso Irap deducendo l’illegittimità costituzionale dell’imposta, costituisce domanda nuova, improponibile nel giudizio d’appello, la deduzione secondo cui il tributo non era dovuto per avere il professionista operato in difetto di autonoma organizzazione.
A tali conclusioni è pervenuta la Cassazione, con la sentenza n. 23305 del 9 settembre 2008.
La controversia
Un medico impugnava innanzi alla Ctp il silenzio rifiuto opposto dall’Amministrazione finanziaria all’istanza di rimborso Irap versata, sostenendo l’illegittimità costituzionale del tributo, contrastante con gli articoli 3, 35, 53, e 76 della Costituzione.
I giudici di primo grado respingevano il ricorso, richiamandosi alla sentenza della Consulta n. 156/2001 (che aveva respinto la tesi dell’illegittimità costituzionale dell’imposta).
Il successivo appello del contribuente si fondava sul rilievo, dedotto per la prima volta, che la sua professione di medico di base convenzionato era esercitata senza dipendenti e con beni strumentali di modico valore. La Ctr accoglieva il gravame.
L’agenzia delle Entrate proponeva ricorso in Cassazione deducendo la violazione dell’articolo 57 del Dlgs 546/1992, dal momento che i giudici di secondo grado, accogliendo l’appello, avevano dato ingresso a una domanda nuova del contribuente, improponibile in appello dal momento che nel ricorso di primo grado non era stata sollevata alcuna deduzione relativa all’assenza di autonoma organizzazione.
La sentenza
La Suprema corte ha accolto il ricorso dell’Amministrazione, dichiarando inammissibile e cassando senza rinvio la decisione impugnata, perché l’appello risultava fondato unicamente su un titolo giuridico (causa petendi) del tutto diverso rispetto a quella posto a base del ricorso di primo grado e, pertanto, in palese contrasto con l’articolo 57 del Dlgs 546/1992.
La sentenza, in linea con il costante e consolidato orientamento dei giudici di legittimità, offre lo spunto per alcune brevi considerazioni sulla possibilità di ampliare nel giudizio d’appello il thema decidendum, attraverso la proposizione di nuove domande differenti rispetto a quelle prospettate in Ctp.
Tale possibilità appare del tutto preclusa in quanto il legislatore tributario, allineandosi a quanto già previsto in ambito civile dagli articoli 345 (con riguardo al processo d’appello nel regime ordinario) e 437 (regime dell’appello nel rito del lavoro) del Codice di procedura civile, ha introdotto il divieto dello ius novorum, inserendolo in modo specifico all’articolo 57, comma 1, del decreto sul contenzioso tributario (nella previgente disciplina – Dpr 636/1972 – non era contemplata una analoga norma).
La disposizione stabilisce, al primo comma, che nel giudizio di appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili. Il secondo comma della stessa norma prevede che non possono proporsi nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio; l’unica eccezione è relativa alla richiesta di interessi maturati in seguito alla sentenza impugnata.
La ratio sottesa al divieto di nuove domande nel giudizio di secondo grado risponde all’esigenza di tutelare il principio del doppio grado di giurisdizione nel giudizio tributario e costituisce, insieme al divieto di nuove eccezioni, il principio su cui si basa la concezione del giudizio di appello come revisio prioris istantiae (ossia revisione del giudizio di primo grado); principio che sarebbe del tutto vanificato nell’ipotesi in cui fossero sottoposti al giudice d’appello fatti e questioni non vagliati dalla Commissione tributaria provinciale.
La stessa natura del processo tributario (caratterizzato da un meccanismo d’instaurazione di tipo impugnatorio), presentando un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi specificatamente dedotti nel ricorso introduttivo in primo grado, onde delimitare sin dalla nascita del rapporto processuale le domande e le eccezioni delle parti (cfr Cassazione, sentenza n. 9754/2003), preclude la possibilità di modificare i termini della controversia, attraverso la prospettazione di nuove circostanze fattuali innanzi al giudice di secondo grado non dedotte nel ricorso introduttivo in Ctp.
I giudici di legittimità hanno in diverse occasioni precisato che, al fine di poter verificare se si è in presenza di una domanda nuova, occorre aver riguardo ad alcuni degli elementi identificativi dell’azione, ovvero al petitum (ossia il provvedimento chiesto all’organo giurisdizionale) e alla causa petendi (ossia le singole questioni di fatto e di diritto dalla cui soluzione dipende l’esito del giudizio).
Riguardo al petitum, dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che, mentre la prospettazione di una pretesa differente rispetto a quella avanzata nel ricorso introduttivo determina l’inammissibilità dell’appello, tale conseguenza non si determina con riferimento alla riduzione, entro più ristretti limiti, della pretesa originaria (cfr Cassazione, sentenze 11265/2003 e 8169/2007).
Relativamente alla causa petendi, invece, si ritiene che si ha domanda nuova allorché i motivi d’appello che denunciano vizi dell’atto impugnato siano diversi da quelli esposti nel giudizio di primo grado, comportando sia il cambiamento dei fatti costitutivi del diritto fatto valere, sia l’oggetto sostanziale, ovvero il petitum sostanziale, dell’azione e i termini della questione; di contro, non si ha domanda nuova quando il mutamento della causa petendi si basi sull’applicazione di norme diverse rispetto a quelle invocate nel giudizio di primo grado, purchè rimanga immutato il fatto costitutivo della pretesa (cfr Cassazione, sentenza n. 3540/1984).
Il divieto dello ius novorum, che subisce poche deroghe (in base a quanto previsto dal più volte citato articolo 57 del Dlgs 546/1992, è consentito domandare in appello gli interessi maturati dopo la sentenza impugnata) non deve ritenersi applicabile alle questioni pregiudiziali, le quali, essendo rilevabili d’ufficio, possono essere portate per la prima volta all’esame della Commissione tributaria regionale.
Emanuele Cormio – Fisco Oggi