E’ questa, in sintesi, la decisione assunta dalla Corte di cassazione, con la sentenza 1364 del 21 gennaio.
I fatti di causa e l’iter di merito
La pronuncia trae origine da un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza a carico di una società, con il quale veniva constatato che quest’ultima avrebbe partecipato, insieme ad altre aziende sparse sul territorio nazionale, a un’associazione criminale dedita alla frode fiscale tramite l’introduzione di argento in Italia e l’utilizzo di fatture false a fronte di operazioni commerciali inesistenti, allo scopo di fruire falsamente di esenzioni e di rimborsi insussistenti. Sulla base di tale atto istruttorio, l’ufficio competente notificava alla società un avviso di rettifica Iva, con cui accertava un’imposta dovuta di circa venti milioni di euro, per indebita detrazione.
Il contribuente proponeva ricorso avverso l’atto impositivo alla Commissione tributaria provinciale, che lo rigettava, motivando che le fatture d’acquisto utilizzate dalla società erano relative a operazioni inesistenti e, quindi, la relativa Iva era indetraibile.
I giudici d’appello, però, ribaltando la sentenza di primo grado, si pronunciavano a favore del contribuente, osservando che, invero, la società aveva acquistato la merce in oggetto con regolari bolle di accompagnamento e relative fatture, aveva effettuato i pagamenti tramite assegni circolari non trasferibili, e i controlli bancari non avevano evidenziato irregolarità; pertanto, l’ufficio non aveva dimostrato in alcun modo che la società avesse coscientemente partecipato alla frode Iva, ma si era piuttosto limitato a presumere il coinvolgimento nel meccanismo fraudolento messo in atto da altri, presunzione che – secondo la Ctr – non si fondava su fatti certi bensì su deboli indizi o comunque altri mezzi di prova non idonei a tal fine. Trattandosi, quindi, di una presunzione semplice, priva dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, non poteva essere sufficiente – a parere dei giudici di seconde cure – a legittimare addebiti per circa venti milioni di euro nei confronti della società.
La decisione della Cassazione
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate, con quattro motivi.
Con il primo, l’Amministrazione finanziaria sosteneva che debba essere escluso il diritto alla detrazione dell’Iva in relazione a operazioni inesistenti, intendendosi come tali anche quelle in cui non via sia esatta coincidenza tra i soggetti indicati in fattura e quelli che hanno posto in essere l’operazione (inesistenza soggettiva).
Con il secondo motivo, poi, la difesa erariale eccepiva che, qualora vengano contestate delle fatture in quanto afferenti a operazioni inesistenti, spetta al contribuente dimostrare l’effettività e la veridicità di tali operazioni.
Con il terzo mezzo di ricorso, l’Amministrazione finanziaria deduceva, inoltre, che l’esercizio del diritto di detrazione non è subordinato al solo fatto che il cessionario abbia versato al cedente l’Iva indicata in fattura, ma tale diritto è da escludersi qualora risulti accertato che la cessione sia stata effettuata nei confronti di un soggetto passivo che sapesse o avrebbe dovuto sapere di partecipare, con il proprio acquisto, a un’operazione che si iscrive in una frode fiscale.
Infine, con l’ultimo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate, dopo aver puntualizzato che il punto decisivo controverso è il fatto della sciente partecipazione alla frode della società, censurava il comportamento della Commissione tributaria regionale che avrebbe dovuto indagare sulla fondatezza di tale tesi e non omettere la valutazione dei fatti dedotti. In particolare, la difesa erariale eccepiva che i giudici d’appello avrebbero riconosciuto l’esistenza in concreto di una frode, dando per provata la fittizietà di società intermedie e le omissioni Iva a opera delle stesse, negando, tuttavia che la società accertata vi avesse preso parte in maniera consapevole. La Ctr, pertanto, sarebbe caduta in chiara omissione di motivazione, perché le contestazioni dell’Amministrazione finanziaria, fondate sulla falsità ideologica delle scritture contabili, nonché sugli elementi probatori prodotti, quali le risultanze delle intercettazioni telefoniche e la sentenza di patteggiamento, dimostravano, appunto, che la realtà dei fatti era diversa da quella contabilmente assunta e cioè che la società accertata aveva avuto piena e consapevole partecipazione alla frode posta in atto. Poiché, però, i giudici di seconda istanza si sarebbero limitati ad affermare che l’ufficio avrebbe basato il proprio convincimento su semplici presunzioni, nonché su indizi o mezzi di prova non validi, essi avrebbero adottato una motivazione inidonea a far comprendere il percorso logico effettuato sui fatti dedotti e comprovati dall’ufficio tributario in sede processuale.
La Suprema corte ha innanzitutto osservato che, mentre con i primi tre mezzi di ricorso l’Amministrazione finanziaria chiedeva sostanzialmente la fissazione di principi di diritto già pacifici nella giurisprudenza di legittimità e sui quali, invero, non si controvertiva in tale sede, l’unico motivo che contestava frontalmente la posizione della Commissione tributaria regionale era il quarto e ultimo, attorno al quale, di fatto, si annodavano tutte le questioni devolute alla cognizione dei Giudici supremi.
Al fine di pronunciarsi su tale motivo, la Cassazione ha preliminarmente ripercorso la giurisprudenza, sia nazionale che comunitaria (sentenze C-439/04 e C-354/03), sulla conoscenza del cessionario circa la fittizietà delle operazioni del cedente, giungendo a sintetizzare i seguenti principi:
- l’emissione della fattura da parte di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione non è riconducibile alla fattispecie, prevista dall’articolo 41, comma 3, del Dpr 633/1972, dell’emissione di fattura recante indicazioni incomplete o inesatte, né a quella, prevista dall’articolo 21, comma 2, n. 1, del medesimo decreto, di omissione dell’indicazione dei soggetti tra cui è effettuata l’operazione, ma va qualificata come fatturazione di un’operazione soggettivamente inesistente, per la quale dev’essere versata la relativa imposta, ai sensi dell’articolo 21, non essendo consentita la detrazione di fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto riguardante l’operazione fatturata (Cassazione 5719/2007)
- qualora l’Amministrazione fornisca validi elementi di prova per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni inesistenti, è onere del contribuente dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni, tenendo presente, tuttavia, che l’Amministrazione non può limitarsi a una generale e apodittica non accettazione della documentazione del contribuente, essendo suo onere quello di indicare specificamente gli elementi, anche indiziali, sui quali si basa la contestazione e il giudice di merito deve prendere in considerazione tali elementi, senza limitarsi a dichiarare che essi esistono e sono tali da dimostrare la falsità delle fatture (Cassazione 21953/2007)
- nell’ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti, il diritto alla detrazione dell’imposta versata in rivalsa al soggetto, diverso dal cedente-prestatore, che ha, tuttavia, emesso la fattura, non sorge immancabilmente, per il solo fatto dell’avvenuta corresponsione di imposta ivi formalmente indicata, ma richiede altresì, che il committente – cessionario, il quale invochi la detrazione, fornisca, sul proprio stato soggettivo in ordine all’altruità della fatturazione, riscontri precisi, non esaurientisi nella prova dell’avvenuta consegna della merce e del pagamento della stessa nonché dell’Iva riportata sulla fattura emessa dal terzo, trattandosi di circostanze non decisive, rispetto al thema probandum, in rapporto alle peculiarità del meccanismo dell’Iva e dei relativi possibili abusi (Cassazione 1950/2007). Il contribuente, pertanto, ha l’onere di dimostrare rigorosamente che è incolpevole la sua ignoranza di aver partecipato a una frode Iva.
Alla luce dei suddetti principi, la Suprema corte è passata, quindi, all’esame dell’eccepito vizio di omessa motivazione da parte della Commissione tributaria regionale sul punto decisivo della controversia attinente la dimostrazione della non conoscenza del disegno fraudolento. La Cassazione ha stabilito, a tal proposito, che "nel caso di specie, il Giudice d’appello ha indicato i fatti di causa solo genericamente e altrettanto genericamente ha indicato i mezzi di prova, negando addirittura erroneamente che le presunzioni abbiano la natura di prova, e si è limitato alla formulazione degli atti di giudizio finale statico sugli uni e sugli altri, trascurando la specificazione dei fatti e la descrizione sia delle attività di accertamento sia delle attività di giudizio, la motivazione della sua sentenza è strutturalmente lacunosa. Per di più, le lacune sono così numerose e così gravi che la motivazione è, non solo insufficiente, ma addirittura apparente e, quindi, sostanzialmente inesistente, perché non si comprende né quali siano gli oggetti dell’attività di conoscenza né quali siano i comportamenti cognitivi assunti (attività di scienza e attività di giudizio)" (cfr Cassazione 27395/2009).
I Giudici hanno statuito, inoltre, che, come già rilevato da pregressa giurisprudenza su casi analoghi (Cassazione 17378/2009), il giudice d’appello è tenuto a esporre la valutazione effettuata circa gli elementi attraverso i quali abbia ritenuto che il contribuente non conoscesse né fosse in grado di conoscere la provenienza fittizia delle fatture, atteso che, diversamente, la sentenza difetterebbe di motivazione, come nel caso in esame, in cui, appunto, la suddetta valutazione, che compete esclusivamente al giudice del merito, non è stata espletata dalla Commissione tributaria regionale.
La Corte suprema ha quindi accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, ha cassato la sentenza impugnata e rinviato la causa ad altra sezione della Commissione tributaria regionale, che, per la nuova decisione, dovrà attenersi ai principi sopra esposti e, soprattutto, effettuare la valutazione su indicata e omessa dai precedenti giudici d’appello.