Fuga dalle Cfc e ristrutturazione delle catene societarie. Negli studi dei consulenti e dei tributaristi la sempre più febbrile attività per far fronte alla stretta sulle controllate estere ferve intorno a questi due cardini.
Le più severe regole introdotte dal decreto legge 78/2009 sulle controlled foreign companies stanno, infatti, provocando tali dubbi e incertezze nei gruppi e nelle multinazionali italiani con ramificazioni oltreconfine da destare ormai un vero e proprio allarme. Anche perché si sta valutando il da farsi, come testimoniano tutti i professionisti consultati dal Sole 24 Ore, praticamente al buio. Su molte questioni sarebbero necessarie precisazioni e soprattutto "rassicurazioni" che l’agenzia delle Entrate però tarda a fornire.
L’unico chiarimento emerso finora, in attesa di una circolare esplicativa, ha riguardato l’entrata in vigore dal 1° gennaio 2010. «Ma fino a qualche settimana fa si ipotizzava un’applicazione retroattiva del giro di vite, già a partire dal luglio 2009», ricorda Massimo Cremona, managing partner di Pirola Pennuto Zei e Associati.
Eppure sarebbe bastato fare riferimento da subito al principio del "legittimo affidamento" dello Statuto del contribuente per evitare equivoci e posticipare l’efficacia delle modifiche apportate all’articolo 167 del Tuir. Una tra le tante leggerezze imputate all’amministrazione finanziaria nell’applicare «regole che non hanno eguali nel mondo per pervasività e capacità di penalizzare il sistema produttivo aggravandolo di costi e adempimenti complessi», aggiunge Cremona. Nessuno discute il versante "black list" della normativa che mette un freno alla localizzazione di holding e società in paradisi fiscali o aree off shore per combattere l’evasione e i fenomeni elusivi. «Il problema è il versante white list della riforma – spiega Cremona – che punisce anche società società finanziarie o con passive income collocate in paesi non black list, come Usa e Australia, o addirittura europei, come Olanda e Lussemburgo. Società realmente operative, insediate in determinati luoghi per ragioni di strategia industriale o commerciale oppure sulla base di un legittimo tax planning». In queste circostanze è indispensabile soppesare la convenienza economica, giuridica e fiscale della dislocazione. Anche in situazioni assolutamente trasparenti, visti i nodi interpretativi della norma, dimostrare che non si tratta di costruzioni societarie artificiose può rivelarsi tutt’altro che scontato. Perciò molte imprese che hanno vantaggi monetari ridotti stanno decidendo o hanno già deciso di accorciare la catena di controllo e rimpatriare, accollandosi i costi (in molti casi non irrilevanti) e le complicazioni burocratiche che ciò comporta.
In alternativa allo smobilizzo del gruppo societario, per evitare le contestazioni dell’amministrazione c’è la chance dell’interpello. «Ma anzitutto – spiega Fabio Brunelli, partner di Di Tanno e Associati – si tratta di un’inversione dell’onere della prova in cui bisogna certificare che non ricorrono i presupposti stabiliti dalla norma, mentre il Fisco avrebbe tutti i mezzi per appurarlo. E poi nell’insieme le zone d’ombra che circondano l’istituto dell’interpello sono ancora troppe. Insomma, si rischia sia di penalizzare le aziende italiane che tentano di internazionalizzarsi, sia di scoraggiare l’insediamento nella Penisola di holding o sub-holding che hanno partecipazioni all’estero».
Sull’istanza di interpello per poter disapplicare la disciplina Cfc, l’agenzia delle Entrate dovrà definire, per esempio, come dovrà essere interpretata la disposizione con riferimento a quelle attività che non richiedono una struttura significativa all’estero (ad esempio holding e società finanziarie), quale documentazione dovrà essere allegata. O, ancora, se si potrà presentare un interpello anche in assenza della tassazione inferiore al 50% per evitare di dover monitorare l’esistenza dei presupposti per l’applicazione della norma ogni anno.
Fonte : IlSole24Ore