L’omessa indicazione degli elementi dai quali il giudice abbia desunto il proprio convincimento e che sono posti a fondamento del dispositivo determina la nullità della sentenza, in quanto ciò rende impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento seguito.
E’ questo il principio espresso dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 24610 depositata il 3 ottobre 2008.
La controversia trae origine dall’impugnazione di un avviso di accertamento, con il quale l’agenzia delle Entrate aveva contestato a una Sas l’omessa contabilizzazione di ricavi, sulla base delle risultanze di un processo verbale di constatazione.
Il ricorso presentato dalla società fu accolto dai giudici di primo grado con sentenza poi confermata dalla Commissione tributaria regionale.
I giudici di appello annullarono l’avviso di accertamento, poiché, nell’esaminare il processo verbale di constatazione prodotto dall’ufficio in contenzioso, rilevarono che gli stessi estensori erano incorsi in “errori matematici ed algebrici” nella determinazione dei maggiori ricavi.
L’Agenzia ha proposto ricorso avverso tale pronuncia, denunciando la violazione degli articoli 132 del Cpc e 36, comma 2, del Dlgs 546/1992, e censurando la motivazione della sentenza per l’inconsistenza delle argomentazioni.
La normativa di riferimento
L’articolo 36, comma 2, numeri 2 e 4, del Dlgs 546/1992 – che ricalca sostanzialmente il corrispondente articolo 132, comma secondo, n. 4 del Cpc – prevede che la sentenza della Commissione tributaria deve contenere fra l’altro “la concisa esposizione dello svolgimento del processo” e “la succinta esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione”.
In particolare, la sentenza deve indicare i fatti storici e giuridici che assumono rilevanza ai fini della decisione, in modo da consentire la ricostruzione dei termini della controversia e le ragioni per cui i giudici hanno deciso di accogliere o meno le diverse domande (cfr circolare n. 98/96).
La sentenza
La Cassazione ha accolto il ricorso presentato dall’agenzia delle Entrate, sostenendo che “la mancata esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa, ovvero la mancanza o l’estrema concisione della motivazione in diritto, determinano la nullità della sentenza, allorché rendano impossibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo” (cfr Cassazione nn. 1944/2001, 3547/2002, 13990/2003).
Più specificatamente, la Corte ha ritenuto che non poteva ritenersi né congrua né corretta una motivazione che si risolvesse nell’affermazione: “dall’esame del pvc prodotto dall’ufficio in fase contenziosa, si rilevano errori matematici ed algebrici in cui sono caduti gli estensori nel fissare la formula che è servita a determinare la quantità dei ricavi…nonché a determinare la percentuale di ricarico da applicarsi al recupero…”.
In buona sostanza, non era possibile comprendere le ragioni del convincimento e controllare l’esattezza e la logicità del ragionamento seguito dai giudici di merito, giacché la sentenza impugnata “non dava conto degli elementi dai quali il giudice di merito aveva desunto il proprio convincimento e che erano stati posti a fondamento del dispositivo”.
La Corte ha pertanto annullato la sentenza impugnata per carenza di motivazione, considerato che le “espressioni” che avevano integrato la motivazione della pronuncia risultavano generiche e astratte, nonché totalmente incomprensibili, proprio perché disancorate da qualsiasi precisazione dei fatti rilevanti.
Francesca La Face – Fisco Oggi