Il fatto
Una società di capitali impugna l’avviso di accertamento per omesso versamento di ritenute d’acconto Irpef (ex articolo 23, Dpr 600/1973), fondato, secondo la motivazione dell’atto impositivo, sulla circostanza che l’azienda aveva posto in essere un’interposizione fittizia di appalto di manodopera in quanto, si sosteneva, il personale era stato impiegato in un’altra società priva di autonoma organizzazione, in violazione dell’articolo 1 della legge 1369/1960.
Il contribuente ottiene ragione dalla Commissione tributaria provinciale, né miglior sorte tocca all’atto impositivo nel processo di appello, con la conseguenza l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per Cassazione avverso la sentenza del riesame.
La ricorrente censura la decisione impugnata, sotto il profilo della violazione di legge, per avere escluso il sussistenza dell’ipotesi di interposizione fittizia di manodopera con riguardo al criterio presuntivo di cui all’articolo 1, comma 3, della legge 1369/1960, non ritenendo provato che le imprese subappaltatrici avessero utilizzato attrezzature e capitali dell’impresa appaltatrice, né verificando la sussistenza degli ulteriori elementi, desumibili dal comma 1 della medesima disposizione (come, ad esempio, l’effettiva autonomia negoziale della subappaltatrice e l’esistenza di struttura e capitali adeguati all’importanza dell’opera). In particolare, l’Amministrazione ha dedotto sin dalle fasi difensive dell’atto introduttivo del giudizio, che la sequenza di operazioni poste in essere (svolgimento di prestazioni lavorative tra le due società) realizza, nella sua complessità, una fattispecie di frode alla legge con riguardo al divieto di interposizione di prestazioni di lavoro di cui alla legge 1369/1960, vigente nel periodo dell’accadimento dei fatti (si ricorda che la legge è stata abrogata con effetto dal 26 ottobre 2004 dall’articolo 85 del Dlgs 276/2003).
Per completezza, va detto che il comma 1 dell’articolo 1, testualmente, vieta all’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono e, in base al successivo comma 3, "è considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per esecuzione di opere o di servizi, ove l’appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all’appaltante".
La decisione
La Suprema corte ritiene assolutamente fondata la tesi dell’Amministrazione finanziaria, la quale a ragione può presumere l’appalto di manodopera per collaboratori impiegati in azienda non organizzata. Infatti, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, la nozione di appalto di manodopera o di mere prestazioni di lavoro, vietato dall’articolo 1 della legge 1369/1960, in mancanza di una definizione normativa, va ricavata tenendo anche conto della previsione dell’articolo 3 della stessa legge, concernente l’appalto (lecito) di opere e servizi nell’interno dell’azienda con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore. Di conseguenza, l’ipotesi di appalto di manodopera è configurabile sia in presenza degli elementi presuntivi considerati dal terzo comma dell’articolo 1 (impiego di capitale, macchine e attrezzature fornite dall’appaltante), sia quando il soggetto interposto manchi di una gestione d’impresa a proprio rischio e di un’autonoma organizzazione, da verificarsi con riguardo alle prestazioni in concreto affidategli (in particolare nel caso di attività esplicate all’interno dell’azienda appaltante, sempre che il presunto appaltatore non dia vita, in tale ambito, a un’organizzazione lavorativa autonoma e non assuma, con la gestione dell’esecuzione e la responsabilità del risultato, il rischio d’impresa relativo al servizio fornito – Cassazione, sentenza n. 5087/1998).
Si è così precisato, con riferimento agli appalti cosiddetti "endoaziendali" – caratterizzati dall’affidamento a un appaltatore esterno di attività, strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente – che il divieto imposto dalla norma in questione opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore/datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata a un risultato produttivo autonomo (Cassazione, sentenza n. 14302/2002).
Il Collegio di legittimità aggiunge, poi, che non può imputarsi all’ufficio la mancata produzione delle fatture emesse dalla subappaltatrice nei confronti dell’impresa appaltatrice per le prestazioni di lavoro tra loro occorse, trattandosi di documenti evidentemente in possesso di quest’ultima. L’imputazione nei predetti termini da parte del giudice di merito, oltre che a privilegiare una difficoltosa circostanza probatoria (in quanto l’ufficio avrebbe dovuto prima acquisire dal contribuente le fatture di cui trattasi e poi esibirle in giudizio), sovverte l’ordine delle prove in base al principio ripetutamente marcato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di accertamento induttivo (Cassazione, sentenze nn. 17841/2004, 11205/2007 e 16423/2008) e cioè:
- che all’Amministrazione finanziaria spetta dimostrare l’esistenza dei fatti rivelatori, indici di maggiore capacità contributiva
- al contribuente compete l’onere di dimostrare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della stessa pretesa su cui l’Amministrazione ha fondato l’atto impositivo.
Ciò in quanto, nel campo dei tributi diretti e dell’Iva, la presunzione indiziaria determina l’inversione dell’onere della prova e legittima, nello specifico, l’esercizio del potere di accertamento presuntivo (Cassazione, sentenze nn. 1628/1995 e 11645/2001), non perché l’Amministrazione finanziaria non abbia il dovere di dimostrare la fondatezza della propria pretesa, quanto perché tale prova può essere data mediante presunzioni fondate su una molteplicità di indizi dotati dei necessari requisiti di gravità, precisione e concordanza (cfr Cassazione, sentenze nn. 1377/1993, 914/1999, 4472/2003 e 16379/2008).
Autonoma organizzazione
Con riguardo al rilievo dell’autonoma organizzazione di impresa, si rileva in conclusione che, secondo l’insegnamento consolidato della giurisprudenza della Suprema corte in tema di Irap (cfr Cassazione, sezioni unite nn. 12108/2009 e 12111/2009, sezione tributaria nn. 3676-3677-3678-3680/2007 e 7828/2010), il requisito dell’autonoma organizzazione ricorre quando il contribuente:
- sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità e interesse
- impieghi beni strumentali eccedenti il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza dell’organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui.
Detto questo, con l’ordinanza n. 10685/2010 la Suprema corte ha deciso che la causa dovrà essere riconsiderata in sede di merito dai giudici del rinvio, rivedendo la complessiva fattispecie, con conseguente svolgimento delle opportune indagini per accertare l’effettiva mancanza di organizzazione e di capitali nell’azienda "interposta".