Il diritto al rimborso dell’Iva versata dalla filiale italiana di una società avente sede in un altro Stato membro Ue sul corrispettivo di servizi resi in suo favore dalla casa madre è soggetto al termine di decadenza biennale, anziché decennale di prescrizione, come sostenuto dal contribuente, in quanto, non esistendo una disciplina comunitaria in tema di indebito fiscale, deve essere applicata la disciplina nazionale.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 30499 del 30 dicembre 2008.
Il fatto
L’Amministrazione finanziaria propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale, lamentando la mancata applicazione della decadenza biennale prevista in linea residuale dall’articolo 21 del Dlgs 546/1992.
La Ctr, respingendo l’appello dell’ufficio, aveva deciso favorevolmente all’applicazione del termine decennale di prescrizione relativo a una richiesta di rimborso avanzata da una Sas che, pur svolgendo attività esente da Iva sul territorio nazionale, aveva erroneamente corrisposto l’imposta a monte sulle prestazioni dei servizi effettuate nei suoi confronti dalla propria casa madre ubicata in ambito Ue.
La sentenza
La Corte di cassazione accoglie il ricorso, ritenendo esaustivamente fondato il motivo principale di impugnazione, peraltro conforme ai principi già enunciati nella sentenza 526/2007.
Con la pronuncia in esame, la Suprema corte ha affermato che, in materia di Iva, il diritto al rimborso dell’imposta versata dalla filiale italiana di una società avente sede in un altro Stato comunitario sul corrispettivo dei servizi resi nei suoi confronti dalla casa madre è soggetto al termine di decadenza biennale (articolo 21, comma 2, ultimo periodo, Dlgs 546/1992), anziché al termine decennale di prescrizione stabilito per l’indebito oggettivo dall’articolo 2946 cc.
Il termine decennale è infatti applicabile "soltanto quando la contrarietà del diritto interno al diritto comunitario investa il tributo nella sua interezza, si che il pagamento non possa in alcun modo ricollegarsi ad un rapporto tributario" (cfr Cassazione, sentenza 15108/2003).
Ma allorché la corresponsione dell’Iva versata a monte esuli da un vero e proprio rapporto tributario, ne consegue che il termine per la presentazione della richiesta del rimborso scade dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione (cfr Cassazione, sentenza 8937/2007).
E ciò pur trovando fondamento – sostiene la Corte – nel contrasto di detta imposta con gli abrogati articoli 2, paragrafo 1, e 9, paragrafo 1, della direttiva n. 77/388/Cee del Consiglio del 17 maggio 1977 (il testo della seconda disposizione risultante dopo le modifiche apportate dall’articolo 1, n. 2), direttiva 7 ottobre 2003, n. 92, considera luogo di una prestazione di servizi il luogo in cui il prestatore ha fissato la sede della propria attività economica o ha costituito un centro di attività stabile, a partire dal quale la prestazione stessa viene resa o, in mancanza di tale sede o di tale centro di attività stabile, il luogo del suo domicilio o della sua residenza abituale).
La descritta disciplina, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenze 9 novembre 1989, C – 386/87; 17 luglio 1997, C – 90/1994; 2 dicembre 1997, C-188/95; 15 settembre 1998, C-231/96), non contrasta con il diritto comunitario, che comunque non ostacola la sottoposizione del diritto al rimborso di tributi pagati in violazione delle norme comunitarie a un regime più restrittivo di quello normalmente stabilito per l’indebito di diritto comune, a condizione però che i termini siano ragionevoli, e cioè che l’esercizio del diritto stesso non sia reso impossibile o eccessivamente difficile e che non siano stabilite modalità più gravose di quelle previste per l’indebito derivante da violazioni del diritto nazionale.
La Cassazione ha già precedentemente ritenuto al riguardo che il principio affermato dalla Corte di giustizia costituisce il momento culminante di un orientamento progressivamente maturato nella sua giurisprudenza, che ha riconosciuto compatibile col diritto comunitario l’esistenza di termini per la ripetizione di tributi, riscossi in base a norme confliggenti con tale diritto, diversi e più brevi di quelli stabiliti in via generale per la ripetizione d’indebito (cfr Cassazione, sentenza 692/1999).
E’ da rilevare, inoltre, che nella sentenza 30499/2008 viene riaffermato il principio secondo cui, al fine di evitare la decadenza, é sufficiente che la spedizione o la richiesta di notificazione dell’istanza di rimborso siano avvenute entro il detto termine biennale, non occorrendo anche il suo pervenimento all’Amministrazione destinataria (cfr Cassazione, sentenza 526/2007).
Ulteriori osservazioni
Specificando, innanzitutto, che il rimborso Iva ordinario – conseguibile nel termine di prescrizione decennale – è quello regolato nel diritto interno dall’articolo 38-bis del Dpr 633/1972 (mentre gli articoli 38-ter e 38-quater disciplinano, rispettivamente, le restituzioni dell’imposta indebitamente versata da soggetti residenti in ambito Ue, privi di stabile organizzazione in Italia o di rappresentante nominato ai sensi dell’articolo 17, e da soggetti residenti fuori dalla Ce), si precisa che la richiamata sentenza 526/2007 rimanda alla questione del "Centro di attività stabile" sorta in seno a una vertenza relativa al riaddebito dei costi dei servizi forniti alla sede secondaria dalla società non residente. Sulla questione, la Corte di giustizia, con la sentenza 23 marzo 2006, C/210-04, ha stabilito che le prestazioni di servizi eseguite da una società a favore di una propria struttura secondaria priva di personalità giuridica, quale una filiale, anche se situata in altro Paese membro dell’Unione europea, non può ritenersi soggetta a Iva anche se alla struttura secondaria viene addebitato un costo dalla casa madre.
Successivamente, della legittimazione a proporre istanza di rimborso dell’imposta tra casa madre e filiale italiana, si è occupata la sentenza 6310/2008 della Suprema corte, ove viene stabilito il principio per cui, in caso di prestazioni di servizi da parte di una filiale con sede in Italia alla casa madre residente in uno Stato membro, la legittimazione alla richiesta del rimborso delle somme indebitamente versate a titolo di Iva compete soltanto al prestatore dei servizi, in quanto la società capogruppo può esercitare mera azione civilistica di ripetizione dell’indebito nei confronti dello stesso.
L’Amministrazione finanziaria, con risoluzioni nn. 330470/1981 e 331300/1983, aveva sostenuto che la sede secondaria in Italia di una società estera assume, ai fini fiscali, la veste di "esecutrice di servizi" (nei confronti della casa madre), dotata di autonoma soggettività d’imposta (articolo 7, Dpr 633/1972) e che le provviste di mezzi finanziari a favore della sede secondaria assumono, per quest’ultima, natura di corrispettivi delle prestazioni di servizi rese dalla sede secondaria alla casa madre, a fronte dei quali vige l’obbligo di emettere regolare fattura, da assoggettare a Iva.
Al riguardo, con la sentenza causa C-210/04/2006, la Corte di giustizia ha ritenuto la prassi amministrativa italiana "incompatibile" con la sesta direttiva comunitaria per cui, al fine dell’adeguamento a detta pronuncia, l’agenzia delle Entrate ha chiarito, con risoluzione 81/2006, che le prestazioni di servizi intercorrenti tra casa madre estera e stabile organizzazione italiana, ovvero tra casa madre italiana e stabile organizzazione estera, sono fuori campo di applicazione dell’Iva e che tale
principio é valido anche nei rapporti con Paesi non appartenenti all’Unione europea.
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