Venezia e Siena sono i comuni capoluogo più «ricchi» d’Italia, Enna, Villacidro e Agrigento i più poveri. «Ricchezza» relativa, per carità, in un panorama che vede tutti i sindaci alle prese con i tagli di risorse e le richieste progressive del patto di stabilità.
Le differenze, comunque, ci sono, e sono imponenti. Si tratta di numeri cruciali, perché offrono la base numerica per i primi calcoli su costi e fabbisogni standard che i tecnici al lavoro sul federalismo fiscale dovranno costruire per poter scrivere i decreti attuativi.
I dati sulle entrate, riportati nelle prime tre tabelle qui sotto, si basano sulla capacità di generare entrate proprie, cioè diverse dai trasferimenti statali o regionali, dai prestiti e dalle alienazioni una tantum. I pilastri di questa ricchezza sono tasse e tariffe, che alimentano i primi due titoli dei consuntivi 2008 appena resi dal ministero dell’Interno.
A spingere i bilanci di Venezia è prima di tutto la fortuna; il casinò e i tributi speciali hanno staccato a Ca’ Farsetti nel 2008 un assegno da 185 milioni di euro, che dà al capoluogo veneto un vantaggio competitivo invidiato da molti sindaci, come dimostrano le spinte periodiche a moltiplicare le case da gioco qua e là per il paese. Con il risultato che abitare a Venezia non è semplicissimo, ma oltre al fascino indiscutibile regala anche la consolazione dell’Irpef comunale ancora a zero.
Caratteristica questa che Venezia condivide con Brescia e Milano, anche loro ai primissimi posti del «benessere» municipale. Nei territori più ricchi, naturalmente, è più facile trovare vie per alimentare le casse locali senza passare dalle richieste dirette sul reddito degli abitanti, anche se l’addio all’Ici sull’abitazione principale e la frenata delle costruzioni, che per i comuni si traducono in soldi sotto forma di oneri di urbanizzazione, rendono oggi più complicata la partita.
A Brescia la carta vincente sono gli utili macinati dalle società, che nel 2008 hanno girato a Piazza della Loggia 84 milioni di euro (il doppio dell’Ici sopravvissuta alle nuove norme, per farsi un’idea), e anche a Milano i risultati delle aziende (105 milioni) offrono un ottimo supporto insieme ai servizi pubblici (253 milioni) e ai proventi che si ricavano dai beni dell’ente (129 milioni). A Siena, invece, il socialismo municipale non dà frutti (in bilancio sono iscritte briciole, 168mila euro), e la parte del leone è svolta da servizi pubblici e proventi diversi. In molte città, soprattutto nel Sud come ha rilevato la Corte dei conti, le partecipate producono invece perdite, ma la contabilità finanziaria degli enti locali evita elegantemente di mostrare i numeri.
In vetta alla classifica si incontra anche Roma, ma il rebus dei conti della Capitale merita un discorso a parte. Per ripianare il mega-debito spuntato due anni fa, i bilanci del Campidoglio sono stati divisi in due: la gestione ordinaria, che compare nei certificati consuntivi, e quella commissariale, che dovrà impegnarsi per tornare a riva superando il mare del passivo. Questo spiega prima di tutto perché la Capitale non primeggi nella graduatoria del debito – guidata da Torinoe Milano – che è stato accollato al canale straordinario della contabilità, ma cambia i conti anche nella colonna delle entrate; tra queste sono infatti contabilizzati circa 2 miliardi di crediti che la gestione ordinaria vanta da quella commissariale, figli del buco aperto (prima dell’aprile 2008) dall’utilizzo delle entrate vincolate per finanziare spese correnti ordinarie, cioè la pratica che ha fatto saltare i conti. Togliendo questi crediti, futuribili, e calcolando i circa 600 milioni di tariffa ambientale che non entra nei consuntivi capitolini perché la Tia è esternalizzata, le entrate proprie di Roma si collocano intorno ai 950 euro a cittadino, qualche spicciolo sopra i livelli milanesi.
Fonte : IlSole24Ore